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Marco Giusti per Dagospia
“Cojone! Sei un cojone!”. Il vecchio che avvicinandosi al ricco e potente, ma alquanto chiacchierato, Numa Tempesta, cioè Marco Giallini, è il suo vecchio padre. Attorno al poco apprezzamento del padre, “sei un cojone”, e alla mancanza d’affetto che lo ha circondato per tutta la sua vita da ricco in carriera, “cojone”, ruoterà non solo tutto il suo personaggio, ma praticamente tutto il nuovo film di Daniele Luchetti, Io sono Tempesta, buon ritorno alla commedia all’italiana di Dino Risi&Co., ma anche ai personaggi forti che avrebbero interpretato un tempo Gassman, Tognazzi, Manfredi o Sordi. Bei tempi, si dirà, quando avevamo un cinema che poteva farci ridere anche con le storie legate alla cronaca e alla politica.
Va detto che lo spunto, che nasce direttamente dalla pena ai servizi sociali nel ricovero per vecchi in quel di Cesano Boscone che scontò un paio di annetti fa il nostro Silvio Berlusconi, è ottimo. Magari non era facile costruire un intero film da uno spunto di quel tipo. Soprattutto senza affrontare il tema più grande, cioè Berlusconi stesso e le sue allegre avventure legali con tanto di Ghedini&associati.
Tutto questo avrebbe portato lontano. E questo si saranno detti Luchetti e i suoi co-sceneggiatori di talento, Sandro Petraglia e Giulia Calendo, nell’affrontare il tema del ricco un po’ trafficone, appunto il Numa Tempesta di Marco Giallini, che finisce ai servizi sociali invece di finire in galera. Allora cosa farne? Diciamo che la scelta è stata quella di ricostruire il vecchio scontro/incontro tra ricco e povero, che in questo caso è il Bruno di Elio Germano, con figlio a carico, ambientandolo nella Roma di oggi, piena di poveri e di diseredati e in un’Italia dove basta un attimo per finire dalla ricchezza alla povertà.
Con tutto quello che questo può significare in termini di meccanismi narrativi. Il set principale è quello di un centro di accoglienza in quel di San Lorenzo diretto da Eleonora Danco, vigilante dura, pura e non cattolica, dove il ricco Tempesta è finito a lavare cessi e rammendare le calze ai più poveri.
E il set secondario è la dimora da nababbo che Tempesta si è costruito dove inviterà anche i suoi nuovi amici, i poveri, quando si sentirà solo. Anche se il film non sempre trova una forma narrativa unitaria, forse ci sono troppe storie interne da raccontare, il tentativo di ricostruire la commedia all’italiana classica risiana, quella più cattiva, in parte già bazzicata dallo stesso Luchetti, pensiamo solo a Il portaborse, è ben calibrato.
Gli sceneggiatori, la fotografia di Luca Bigazzi, la musica coltissima di Carlo Crivelli e una scelta davvero inventiva di volti più o meno veri nel cast minore rende il film di un livello decisamente superiore rispetto alle commedie della stagione. Giallini e Germano giocano nei loro ruoli come fossero vecchi maestri del genere, un po’ Gassman e Montesano, diciamo, facendoci capire quanto è antico questo meccanismo comico. Ma sono aiutati pure da buone battute (“Alla fine in Italia la vita del povero è da paura!”).
Certo. Non tutto gira a dovere nell’ingranaggio del soggetto, ma forse questo si deve al fatto che questo tipo di commedie più non si tentano più, limitandoci a situazioni banali con due-tre star protagoniste. Luchetti ha capito che la chiave del suo racconto è nella tradizione della nostra commedia, anche se per rimetterla in piedi ci vuole del tempo. E già questo ci piace parecchio.
Come ci piace la scelta di non banalizzare le ragazze di compagnia di tempesta, ma di farne dei veri personaggi, capitanate dalla emergente Simonetta Columbu, davvero una scoperta. O di aver dato alla ciurmaglia dei poveri dei caratterri particolari, a cominciare da Il Greco interpretato da quel Marcello Fonte che presto vedremo protagonista del Canaro di Matteo Garrone. In sala da giovedì 12 aprile.
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