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Adriana Marmiroli per “La Stampa”
Non un solo giorno e una grande manifestazione di massa, colorata, allegra, danzante, talvolta sfacciata. Quest' anno più che mai, in memoria dei fatti dello Stonewall Inn del 1969, il Gay Pride è tutto un mese, giugno, e tanti appuntamenti diffusi: Covid sconsiglia le grandi masse che si accalcano. «L'onda Pride è pronta a travolgerci», proclamano comunque gli organizzatori.
Tra ddl Zan di cui sollecitare l'approvazione e crescenti atti di omofobia, la guardia va tenuta alta, i diritti proclamati. Anche - e mai come quest' anno - in tv, dove tra Disney + e Netflix molte sono le serie che rievocano la battaglia per l'eguaglianza. A partire dalla serie documentaria Pride, che Disney+ lancia in Italia il 25 giugno: in sei episodi, decennio dopo decennio, ricostruisce 70 anni di lotte per l'eguaglianza del mondo LGBTQI+ americano.
Dagli anni postbellici dell'omofobia di Stato e delle persecuzioni pianificate dal senatore McCarthy al nuovo millennio della conquistata visibilità mediatica (come non ricordare l'importanza di serie come Tales of the City, Will & Grace, Modern Family, L Word, Orange Is New Black, Grace & Frankie, Transparent?) e della nuova sensibilità, con l'erompere delle tematiche cisgender, ma anche gli arretramenti del trumpismo e delle nuove destre estreme.
Celebra (e piange) un momento cruciale della storia LGBTQI+ anche Pose: Netflix programma le prime due stagioni, mentre la terza e ultima è ancora senza data, forse in autunno. In America invece è stata lanciata proprio in questo periodo. Ideata da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steve Canals, nel 2018 ha portato in primo piano il mondo queer, facendo dei suoi protagonisti delle star: MJ Rodriguez, Indya Moore, Dominique Jackson, Billy Porter, primo uomo dichiaratamente gay ad avere vinto l'Emmy.
Nella prima stagione c'era il «vogueing», la follia vitale e trasgressiva delle «ballroom» dell'underground newyorchese degli Ottanta, e insieme l'orgoglio di esserci e contare di donne e uomini, neri e ispanici, emarginati e rifiutati. Nella seconda c'era soprattutto l'irrompere dell'Aids: scioccanti le immagini di Hart Island, l'isola-cimitero dei «morti di nessuno» dove New York seppelliva le vittime dell'Aids (e oggi di Covid-19).
Con la terza stagione si passa al 1994: l'Hiv è strage di massa, le troppe morti non si riescono più a elaborare, c'è rassegnazione e rabbia. Ballroom e vogueing sono decaduti. La vita ha imposto nuove scelte alla protagonista, Blanca: la cura dei sieropositivi, l'impegno come attivista per la diffusione a tutti e a poco delle nuove cure salvavita anti Aids, anche se le ballroom restano nel cuore.
«Fin dall'inizio è stato un progetto di passione - ha detto Murphy -, uno dei momenti più creativi della mia carriera. Abbiamo potuto raccontare la storia che volevamo, come volevamo. Portare un personaggio LGBTQ in tv era quasi impossibile. E invece, con il più grande cast LGBTQ mai ingaggiato, abbiamo fatto la storia della tv e del costume».
Minimizza Canals, che del progetto è il vero ideatore: «Non volevo cambiare la tv, ma solo raccontare una storia sulla famiglia, la resilienza, l'amore». Più radicale, da attivista qual è, la regista Janet Mock, prima transgender di colore a dirigere e sceneggiare un episodio tv: «Stiamo combattendo per un mondo in cui le persone trans siano accettate. Perché queste donne - prima outsider, rinnegate e pioniere - possano dire di esserci e di realizzarsi». E c'è ancora Ryan Murphy, produttore e sceneggiatore, dietro ad Halston (Netflix), altra serie che racconta gli Anni 80, l'Aids, la genialità di una personalità gay «bigger than life».
Ma qui si parla di moda e dell'upper side di New York: quasi il contraltare di Pose. Con Warhol e il Club 54 come punti di contatto. Ma anche Roy Halston Frowick, star del fashion Usa negli Anni 70 e 80 (nella serie interpretato da Ewan McGregor rimasto affascinato, dice, «dalla sua straordinaria creatività e dedizione al suo lavoro»), era un outsider. Famoso per avere creato il cappello a tamburello tanto amato da Jacqueline Kennedy, fondò una propria casa di moda e la perse, ebbe stile inconfondibile e rivoluzionario.
Amico di Liza Minelli, Andy Warhol, Martha Graham, fu lui stesso personaggio dello star system. Eppure fu schiacciato da un senso di inadeguatezza che lo portò all'autodistruzione. A fine Anni Ottanta creò bellissimi costumi per le coreografie della Graham: il suo canto del cigno. Come gli outsider di Pose fu anche lui vittima dell'Aids nel 1990. Ed è giusto ricordarlo nei giorni di un Gay Pride nuovamente minacciato da un virus.
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