MOLLARE O NO? - LE DUE OPPOSTE CONCEZIONI DI FRANCA VALERI, CHE A 92 ANNI NON NE VUOLE SAPERE DI SMETTERE DI LAVORARE, E DI MAURIZIO CATTELAN, CHE SI GODE IL SUO RIPOSO - LA FRANCA NAZIONALE: “IL SOLO PENSIERO DI NON FAR NIENTE MI DEPRIME” – L’ARTISTA: “SI SMETTE PER NON DIVENTARE LA MACCHIETTA DI SE STESSI. LA COSA PIÙ DIFFICILE NON È SMETTERE, MA POTER DIRE “NON STO FACENDO NIENTE” E NON VERGOGNARSI”…

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1 - FRANCA VALERI: "SMETTERE? NON FA PER ME"
Anna Bandettini per "la Repubblica"

È contenta perché finalmente tra qualche giorno partirà: una nuova tournée, sempre con
Non tutto è risolto la sua ultima commedia dove recita anche, con Urbano Rattazzi e Licia Maglietta. Poi sta già scrivendo «una cosa nuova», anticipa, e la sua agenda è fitta di incontri pubblici dove ogni volta la accolgono giovani innamorati che la considerano un guru generazionale. A 92 anni Franca Valeri è ancora in marcia. «Smettere di lavorare? Non capisco come si possa», dice con incoercibile ottimismo. "Maestra" riconosciuta del teatro comico italiano, dove da più di sessant'anni recita, scrive, dirige spettacoli non batte la fiacca e accetta con bonario distacco i complimenti. «Quando la vita è lunga, mica
puoi stare sempre con le mani in mano».

Perché no? Ci si riposa.
«Il solo pensiero di non far niente mi deprime, io ho ancora una malsana curiosità verso il mondo. Ma - a parte la salute, un fattore che mi ritengo fortunata di avere - ci sono ragioni lontane in questa mia voglia di andare avanti. E la prima è l'intelligenza di aver scelto una vita che difficilmente può annoiare».

Il teatro: lo trova ancora così appassionante?
«Certo, stai con la gente, la conosci. Io poi sono molto amata, i giovani sanno a memoria i miei pezzi di teatro, le battute di film come Parigi o cara... Nel teatro ho tanti amici che mi sostengono e divertono. L'errore è mettere assieme la gente anziana, infelice, tutta assieme. Quando hai un'età che potrebbe essere malinconica e hai intorno gente giovane, invece ti senti più giovane anche tu».

E l'altra ragione?
«La guerra. Quando hai sedici anni e vivi nei rifugi, non hai niente... Ecco, una giovinezza funestata da una guerra orrenda mi ha sviluppato una smania di recupero che mi dura ancora».

Recupero di che?
«Di sogni, vita, di quello che volevo fare e che non si poteva fare allora. La mia famiglia, come tante di ebrei italiani, è stata tra quelle perseguitate. Da sfollata, è vero, io ho letto molto, Proust, Balzac e poi Wilde, Shakespeare... perché altro da fare non c'era. Ma la guerra è stata dura e mi ha insegnato che, superata quella esperienza, avrei potuto fare qualunque cosa. Mi ha insegnato a non rassegnarmi».

Come è una sua giornata di lavoro?
«Lavoro ogni giorno, la quotidianità è tutto. La mattina lo faccio a letto, perché ho mal di schiena ma soprattutto perché a letto è molto bello pensare. E buona parte del mio lavoro è pensare. Rimugino. Mi piace scrivere, ma non lo faccio finché non ho l'idea giusta. Poi c'è da fare il giornalino sui cani. E poi gli amici. Confesso che combinare una cena in un modesto ristorante con quattro cari amici è una delle cose più belle».

Le pesa il corpo che intanto invecchia, perde prontezza?
«Sì, il mal di schiena non passa, ma pazienza. So che se mi affatica fare un pezzo di strada c'è sempre qualcuno che mi offre il braccio per accompagnarmi».

Non sente di occupare un posto che potrebbe essere di un giovane?
«Proprio no. Da sempre i giovani devono farsi strada da soli, lottare come hanno fatto quelli di tutte le generazioni. E non mi pare che oggi ci sia una brutta giovinezza, c'è semmai una brutta mezza età con quegli uomini e donne che non vogliono invecchiare. I giovani invece sono attenti, curiosi, a me non fanno che chiedere chi ho conosciuto, chi ho incontrato... Forse la loro è una richiesta di aiuto morale, in un momento che è duro, meglio di quello che c'era prima, ma sempre duro. Spero solo che faccia loro l'effetto che ha fatto a me la guerra».


2 - MAURIZIO CATTELAN: "COSÌ HO CHIUSO CON LO STRESS"
Dario Pappalardo per "la Repubblica"

Tre giorni fa, a Maurizio Cattelan è capitato tra le mani il catalogo con tutte le sue opere. L'ha tenuto aperto per un po' e gli è venuta la nausea: «Era da nove mesi che non lo guardavo... all'inizio l'ho trovato bello, poi però ho smesso di sfogliarlo». Un anno e mezzo fa, annunciava l'addio all'arte contemporanea, culminato con la retrospettiva al Guggenheim di New York, la città dove l'artista vive. Lo ha detto e lo ha fatto. A cinquant'anni, dopo provocazioni, animali impagliati, sculture iperrealistiche battute all'asta per milioni di dollari, ha lasciato tutto.

Cattelan, perché si decide di smettere?
«Arriva un punto in cui stress e impegni ti portano ad alzare bandiera bianca. Si smette perché non si sente più quella tensione che ti prende quando devi consegnare un'opera e non sai ancora come risolverla. L'adrenalina finisce. Si smette quando si capisce che tanto le cose non saranno più come prima. Si smette per non diventare la macchietta di se stessi».

C'è una schiavitù della creazione?
«Ognuno stabilisce un proprio standard di qualità e cerca di mantenerlo. C'è un momento in cui si entra in un ciclo di ripetizione e quella è la cosa da evitare. Il nostro, visto dal di fuori, sembra uno stato superiore. Invece è una maledizione. C'è chi è obbligato a scrivere. Chi a realizzare opere nuove. Ancora mi chiedono: "Che mostre stai facendo?". Io rispondo: "Niente". "E allora cosa fai?", mi dicono. Siamo obbligati in continuazione a dimostrare di fare qualcosa».

Come sono cambiate le sue giornate, dopo l'"addio"?
«Philip Roth ha comprato l'iPhone; io invece i primi quaranta giorni ho spento tutto e me ne sono partito in bici. Non ho più lo stress del calendario. Leggo di più. La notte ho iniziato a dormire regolarmente sette ore di fila. Il sonno è più tranquillo. Prima riposavo cinque ore, e in mezzo mi svegliavo due volte. Comunque sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi stimoli. Ho solo spostato la mia attenzione su altro: posso passare anche otto ore a "surfare" in Rete a caccia di immagini. Curo la rivista Toilet Paper, ma si tratta di un progetto di équipe».

Se le venisse un'idea nuova, riprenderebbe a fare l'artista?
«Finora non è successo. Prima venivano le occasioni e poi le idee. Ora le occasioni cerco di non crearle proprio. Due giorni fa, mentre guardavo un'immagine, mi sono ridetto per la prima volta: "Questo può diventare lo spunto per un'opera". Allora mi sono un po' preoccupato. Ma poi ho frenato tutto. E comunque se dovessi tornare, lo farei con qualcosa di completamente diverso: non parlatemi di manichini e di animali impagliati».

In giro ci sono ancora mostre con le sue opere, però.
«Ma non sono curate da me. Anzi, è interessante vedere come il lavoro che hai fatto possa avere un'ulteriore vita senza di te. Sono abbastanza distaccato rispetto a questo ed è la dimostrazione che si tratta di un capitolo chiuso. Inevitabilmente, con gli anni si assiste alla condanna a morte dei tuoi lavori. Bisogna vedere quale sopravvive. Se della produzione di un artista si riescono a salvare anche poche opere, è già un bel successo».

Qual è l'aspetto più difficile del lasciare tutto?
«La cosa più difficile non è "smettere", ma sapere che sei completo anche senza "creare" niente. L'unico modo per rigenerarsi è capire davvero che non devi dimostrare più nulla: poter dire "non sto facendo niente" e non vergognarsi. Sarebbe la più grande lezione zen. Per ora non mi sento ancora così, ma mi sto disintossicando».

 

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