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Marco Giusti per Dagospia
Finalmente. Tutti i fan di Wes Anderson hanno il loro vero film di Natale. Il suo "Moonrise Kingdom", che aveva aperto il Festival di Cannes lo scorso maggio, è una totale delizia. Magari un po' fighetto, ma alla fine così scombinato nella sua assurda ricerca di perfezione di colori, personaggi, musica, costumi che non puoi che arrenderti. Certo il pubblico che ha esaltato "Amour" di Haneke non può amarlo. Ma rimane uno dei veri piaceri dell'anno, almeno per me.
Anderson mette in scena con la solita cura maniacale di abiti, colori, scenografie, una fuga d'amore di un boy scout dodicenne e orfanello, Sam, e una ragazzina in guerra col mondo, Suzy, che non può lasciare mai il suo binocolo e il mangiadischi a pile che ha rubato al fratello con cui suona a palla Francoise Hardy e un'opera per bambini di Benjamin Britten.
Un delirio, insomma. Il tutto ambientato nel 1965 nell'isola di New Penzance, prima che si scateni un terribile uragano. Dietro di loro si muovono un gruppo di adulti tristi e scombinati, i genitori di Suzy, Bill Murray con dei pantaloni meravigliosi, e la strepitosa Frances MacDormand, che ha una storia con il depresso capo della polizia delle isole, un Bruce Willis come non lo avete mai visto.
Ma c'è anche la terribile signora dei servizi sociali, Tilda Swinton, e il comandante del gruppo 55 degli scout, Edward Norton, tutti i piccoli scout che non hanno mai accettato come loro amico l'orfanello Sam e il vero capo degli scout, Harvey Keitel. Piccola storia dell'incontro fra due solitudini in un'America lontana e misteriosa, il film è costruito quasi musicalmente su un'operina per bambini di Benjamin Britten, ma anche su altre sue opere, come "Noah's Floods", che diventerà un momento fondamentale nel finale con l'arrivo dell'uragano. I due ragazzini, come tutti i personaggi dei film di Wes Anderson, sono pieni di incertezze e di eccentricità , ma non possiamo che amarli immediatamente.
Come amiamo gli adulti attorno a loro. Wes Anderson e il suo co-sceneggiatore Roman Coppola, si scatenano nella ricostruzione di un passato di un'America ancora vergine, dove Britten vale le canzoni country di Hank Williams e l'arrivo dei 45 giri di Françoise Hardy sembra quello della Nouvelle Vague. Ma la stessa cosa capitò a noi nei primi anni '60 e non c'era un ragazzo che non sognasse Françoise Hardy.
Non c'è una scena, un'inquadratura che non sia controllata dal desiderio di Wes Anderson di ridisegnare abiti, pareti, oggetti d'epoca. Ma per fortuna tutto questo meccanismo alla fine lo percepiamo come un gioco così complesso e inutile da far parte solo del desiderio di Anderson di fare del cinema personale, di sognare con quello che mette in scena. In sala dal 5 dicembre. Meglio di qualsiasi cinepanettone più o meno indigesto.
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