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1. MILANO, IN RICORDO DI ODB
Da âLa Stampa'
A dieci anni dalla scomparsa, Milano ricorda Oreste del Buono con tre giornate nell'ambito della rassegna «Odb, l'immaginazione divertente». Oggi alle 18, nella Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera, «OdB L'infedele», con Natalia Aspesi, Felice Cappa, Aldo Grasso e Ranieri Polese, e con la proiezione dell'originale televisivo firmato da Del Buono nel 1962. In chiusura delle celebrazioni, giovedì alle 18, Biblioteca comunale Palazzo Sormani, presentazione del volume di Odb Sul fumetto, a cura di Daniele Brolli.
2. ORESTE DEL BUONO
Pino Corrias per "il Venerdì - la Repubblica"
Era piccolo, tondo, curioso. Era un gigante. Irrequieto a oltranza, anarchico anche negli abbracci. Era Oreste del Buono. Detto Orestino da Federico Fellini. Detto Odb per brevità . Detto il Mahatma per deferenza dai fumettari che ha scoperto, nutrito, accudito per una trentina d'anni sulle scintillanti pagine del suo Linus. Oltre a migliaia di articoli, i romanzi, i racconti, le centonovanta traduzioni, ha firmato cento dimissioni in vita.
Tutte revocabili per cambio di umore. Tutte provvisorie per urgenza d'affetti: da direzioni di case editrici e di collane, da rubriche di posta e quotidiani ad alte tirature, da riviste ultra sofisticate e rotocalchi popolari. Una sola definitiva. Senza inchiostro. Il 23 settembre del 2003, quando a 80 anni compiuti se n'è tornato per linee orizzontali a riposare sotto i temporali dell'isola d'Elba che lui, qualche volta, ci raccontava, abitata da terribili zie, solitudini d'alto mare, e infinitesimi ricordi che per la sua amata figlia Nicoletta faceva rifiorire nella sua minuscola calligrafia.
«Vengo da lì, ci tornerò» diceva stringendo le spalle, con il suo misto di ironia asciutta e fermezza che aveva perfezionato in terra ferma. Tra i massimi fabbricatori di case editrici e di carte narrative - come i suoi compagni d'avventura Elio Vittorini, Italo Calvino, Vittorio Sereni, Mario Spagnol - è finito in un imperdonabile oblio, con la notevole eccezione di un primo volume d'opera omnia (per i tipi di Isbn, anno 2010) rimasto celibe come capita alle buone intenzioni.
Ora si sveglia Milano, sua città d'adozione. Perlustrata in anni di passeggiate solitarie, raccontata nella sua celebre Talpa di città dove gli capitava di chiacchierare con il suo amico Gianni Rivera o di litigare con il fioraio, di raccontarci i malumori di Enzo Jannacci e la poetica del grande Beppe Viola, di professione perdigiorno. Milano finalmente gli dedica tre giorni di rimembranze. Meglio di niente. Mettendo in fila la sua fatica enciclopedica che partì con le sue prime traduzioni di Proust, Flaubert, Stevenson, transitò nella cronaca nera di Milano Sera, che era polvere di Dopoguerra, per passare a quella coloratissima dei nuovi rotocalchi, l'Oggi di Angelo Rizzoli e Gente di Edilio Rusconi, che era polvere di stelle in un'Italia per la prima volta televisiva, ben nutrita, ma ancora affamata di storie popolari.
Per arrivare alle lunghe direzioni editoriali - in Rizzoli, Einaudi, Bompiani - a quella lunghissima dei Gialli Mondadori con le loro infinite emozioni tascabili. Ai mille libri letti da consulente editoriale, compresa la scoperta di Dashiell Hammett, Raymond Chandler e tutti i narratori della scuola dei duri col cuore morbido. La passione per il Maigret di Simenon che pubblicò a oltranza. La curiosità per la fantascienza. L'ammirazione per Stephen King, mille pagine lette in una sola notte, a Francoforte, durante la Fiera, e alle sette del mattino l'ordine perentorio all'editore: «Comprare tutto, è un genio».
E intanto narratore in proprio, con una dozzina di romanzi, abitati da protagonisti malinconici e perdenti, fascinosi anche nel titolo, tra i quali almeno tre capolavori, I peggiori anni della nostra vita (1971), La nostra classe dirigente (1986), La vita sola (1989). Tutti scritti a macchina, infinite volte ricorretti a penna nelle lunghe notti che per misterioso metabolismo trascorreva sveglio, tra le sponde dei suoi 30 mila libri, che erano il suo mare.
E che nella sua ultima casa milanese - dietro i Giardini Pubblici di Porta Venezia - erano esondati da tutte le librerie, da tutti gli scaffali, al punto che per passare da un lato all'altro della sala, aveva gettato una scala in orizzontale e su quella camminava. Traversando in diagonale tutte le letterature, tutti i generi, proprio come faceva nella sua vita diurna, da una redazione all'altra, cominciando all'alba con la più bassa delle sue alte passioni (oppure viceversa) le avventure del suo alter ego, Charlie Brown: «Io sono lui» diceva. «Un fumetto non comico, ma tragico, che però fa ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed esorcismo». Ci siamo conosciuti ai tempi della rinata Baldini & Castoldi, fine Anni 80, antica casa editrice riaperta da Alessandro Dalai, che per la verità era suo nipote, il che gli consentiva di pretendere l'inchino e la risata: «Io sarei il conte zio».
Tutti e due erano appena fuoriusciti da Einaudi, accusati di lesa maestà per aver preteso di pubblicare quel monumento al buon umore intitolato Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano, autori Gino & Michele, tra le cattedrali d'alta letteratura dello Struzzo. Senza sospettare quanto la leggerezza di quella antologia temeraria si sarebbe rivelata indigesta all'autorevole seriosità di quelle stanze torinesi. O al contrario sapendolo con certezza, lui che si divertiva un mondo a navigare controcorrente. E incidentalmente ad azzeccare un buon affare editoriale da 3 milioni di copie.
Fu un litigio di cui andava fiero - ne raccontava infinte versioni - almeno fino al giorno della riconciliazione con il suo amico Giulio Einaudi, editore non abbastanza permaloso da rinunciare a uno dei suoi ultimi capolavori di collana, quello dei Tascabili. L'ora buona per incontrarsi era il pranzo, da certi cinesi all'angolo con piazzale Baracca. Oppure all'Assassino, cucina toscana di Fucecchio, covo degli antichi milanisti come Odb, dove nei Sessanta Nereo Rocco, il Paron, aveva il tavolo riservato per la cena e la partita a carte con Nicolò Carosio.
Stavo lavorando al mio libro su Luciano Bianciardi, l'autore di Vita agra, uno degli ultimi romantici spazzati via dalla «diseducazione sentimentale» del Miracolo che ai tempi piaceva a tutti - le automobili, la pubblicità , i supermercati, i danè - tranne che a lui, il guastafeste salito a Milano dalle maremme e poi morto malamente, in solitudine. Oreste lo aveva conosciuto. Aveva ammirato il suo mestiere di traduttore a cottimo. Il suo anarchismo fuori tempo, lo stile mirabolante della sua scrittura, la sua attitudine alla sconfitta.
E a forza di raccontarmi la vita milanese di Luciano, che deambulava come lui da una redazione all'altra, cominciò a raccontarmi la sua. Di quanto lo avevano nutrito di sospiri, da bambino, le strisce de L'Avventuroso, di come si innamorava delle «regine colorate» che invece amavano Flash Gordon. Di quando cominciò a disegnare per il Balilla di Rubino. Di come conobbe Giovannino Guareschi che gli pubblicò le prime vignette per il Bertoldo.
Di quando a vent'anni, infervorato dalla bella morte di suo zio Teseo Tesei, eroe che cavalcava le motosiluranti, corse ad arruolarsi in Marina a Brioni, in Istria, peccato fosse l'agosto del 1943, con l'8 settembre che gli precipitò addosso, scaraventandolo in un campo di prigionia tedesco, due anni di fame e di pidocchi, prima di approdare a Milano il 23 aprile del '45, in tempo per la festa della Liberazione, bandiere e impiccagioni comprese. Delle sue notti al Palazzo dei Giornali di piazza Cavour, dove scriveva cronaca nera e recensioni teatrali, lavorava con Sereni, Achille Campanile, Tommaso Giglio, Alfonso Gatto.
E poi della sua passione per il cinema. Della sua amicizia con Fellini, durata per sempre, con le loro infinite telefonate notturne: «Lui soffre di insonnia. E a me bastano due ore di riposo per notte, di solito dalle nove alle undici. à per questo che traduco e faccio così tante rubriche. Ho molto più tempo di voi». Raccontava di Alice nel Paese delle Meraviglie, il libro che amava di più per la sua sfrenata fantasia, e di cui possedeva decine di edizioni, anche rare.
Così come amava Corto Maltese di Hugo Pratt, il suo viaggio infinito intorno al mondo e al mistero dell'uomo, più di tutti i fumetti che aveva pubblicato nella sua gloriosa avanscoperta iniziata nell'anno 1965, con le tavole di Dick Tracy e la coperta di Linus, approdata a Altan, Mattotti, Andrea Pazienza. Ascoltarlo alle riunioni editoriali era uno spettacolo. Aveva sempre già letto tutto, gli ultimi quotidiani e il primo Carver. Le lettere di Donna Letizia alle mogli tradite e gli ultimissimi taccuini di Carlo Emilio Gadda.
Aveva appena parlato con Monicelli, con Umberto Eco e con Livio Garzanti. E proprio quella notte aveva concluso l'editing dei cinquecento racconti di quell'altro esule che amava, Scerbanenco, maestro di crudeltà quotidiane e sangue sgocciolato tra piazzale Axum e il Bar Giamica. Notevoli erano i suoi sfoghi politici. Considerava Berlusconi un oltraggio e Bertinotti una caricatura. Ammirava i giudici di Tangentopoli e si divertì un mondo a firmare un'antologia intitolata I grandi ladri, da Rocambole a Mario Chiesa, il mariuolo di Bettino Craxi.
Si definiva un anarchico stalinista. Ma accettava pure: elbano insofferente. Era animalista, ma non voleva animali per casa, «di bestia, basto io». Odiava i fumatori quando tutti fumavano, ma li difendeva appena iniziarono le crociate antifumo. Gli piaceva camminare, andare a San Siro a vedere il Milan, litigare con Prisco, l'avvocato dell'Inter e poi far pace con Moratti, il presidente. Era un trasvolatore in perenne perlustrazione. E quando vedeva qualcosa si incuriosiva e atterrava.
Scrisse di televisione e di spot pubblicitari quando nessun direttore editoriale si azzardava a farlo. Scrisse della vecchiaia quando se ne sentì circondato, stava per compiere 80 anni: «In questa odiosa circostanza, ho cominciato a ricevere richieste di interviste, annunci di cerimonie, felicitazioni. Grazie a tutti. Ma perché? Di che cosa ci si congratula? Del fatto che io sia ancora vivo? Anche questo è da vedere». L'ultimo anno gli faceva male il ginocchio, non vedeva bene e perdeva le parole. Le ultime furono per l'amata Lietta Tornabuoni e per sua figlia. Erano le sue dimissioni.
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