FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
1. «IO E MIO FRATELLO PAOLO POLI UNITI ANCHE DAGLI SBERLEFFI»
Emilia Costantini per il ''Corriere della Sera''
«Il suo epitaffio? Parafrasando Dorothy Parker, potrebbe essere "scusate se faccio polvere"». Chiosa così Lucia Poli la scomparsa dell' amato fratello Paolo, rendendo omaggio all' ironia che lo ha sempre contraddistinto.
«Un' ironia incontenibile che ha accompagnato la sua vita e la sua carriera d' attore.
Un' ironia però che lascia il segno, mai bonaria ma caustica, quella di un Oscar Wilde, per intenderci, che a volte rasentava un cinismo surreale».
Fino alla fine?
«Purtroppo l' ultimo mese e mezzo, da quando il 18 febbraio è stato colpito da ischemia cerebrale, è stato dolorosissimo. Era paralizzato, afasico. Un periodo di sofferenza per lui e per me che gli ero vicina tutti i giorni. In questo momento, ora che non c' è più, riaffiora anche la fatica, l' affanno di un' agonia che, per fortuna, non è stata troppo lunga».
umberto eco e paolo poli babau 2
In pochi sapevano della sua malattia e del ricovero.
«Sì, ho tenuto la notizia riservata, perché non volevo che finisse in pasto a tutti, che se ne impossessassero i giornali, che magari sul web spuntassero foto o indiscrezioni che violassero la dignità, la solitudine che un uomo, un artista come lui, stava vivendo. Ho voluto mantenere il riserbo per il rispetto che si deve a una persona che sta consumando i suoi ultimi attimi di esistenza. Ma capisco anche che Paolo appartiene a un pezzo di storia del nostro Paese e quindi, ora, è giusto parlarne, ricordarlo, rammentare quanto è stato amato dal suo pubblico».
umberto eco e paolo poli babau 3
Un pubblico che lo ha seguito fino alle sue ultime repliche.
«Ha lavorato fino alla fine, non era mai stanco di recitare. Negli ultimi tempi ogni tanto si lamentava, mi diceva "strascico un po' le gambe" e io gli rispondevo, prendendolo in giro anche stupita delle sue lamentele: Paolo ma che pretendi! È artrosi... ce l' ho pure io!
Tu hai 86 anni e vuoi correre?».
Lui tuttavia conviveva bene con la vecchiaia.
«Certo, perché la viveva in palcoscenico in una continua ginnastica fisica e mentale, dimenticando gli acciacchi dell' età».
A gennaio ha inaugurato la riapertura del Teatro Niccolini di Firenze.
«Era felicissimo, perché al Niccolini era molto legato, era stato la sua casa per tanto tempo e poi, a noi fiorentini, piace molto lavorare nella nostra città. Ma in quell' occasione non aveva fatto un vero e proprio spettacolo, piuttosto una chiacchierata col pubblico, un' affabulazione di ricordi, aneddoti... Una sorta di résumé».
Paolo Poli foto di Antonio Viscido
Lei, Lucia, ha perso un fratello e un compagno di scena.
«Ne sono stata anche allieva: avevamo undici anni di differenza. Io ero bambina e lui era già grande: mi raccontava i film e gli spettacoli che andava a vedere».
Per esempio?
«Ricordo di aver conosciuto Amleto attraverso la sua descrizione di una messinscena cui aveva assistito non ricordo dove e con chi. Ma ricordo che mi raccontò un Amleto tragicomico e non drammatico com' è nella realtà del testo shakespeariano. Paolo era fatto così, interpretava non solo i suoi personaggi, ma anche quelli degli altri».
Vi divertivate a recitare insieme?
«Sì tanto, anche perché amavamo gli stessi autori, come per esempio Palazzeschi.
Poi ci somigliavamo anche fisicamente, un' identità quasi imbarazzante che ci ha unito profondamente. E quando nacque mio figlio, Paolo era fuori di sé dalla gioia di portarlo in tournée: noi in scena, il bambino nella cesta, come nel teatro all' antica italiana».
Il suo maggior difetto?
«Il narcisismo: è tipico di tutti gli attori, in lui più accentuato. Paolo in palcoscenico si sentiva a suo agio. Avrebbe voluto morire in scena come Molière. È morto poco lontano».
Paolo Poli foto di Antonio Viscido
2. UN MERAVIGLIOSO «FINOCCHIO»
Giordano Tedoldi per ''Libero Quotidiano''
Era il 1996, e al teatro Valle di Roma, che molti anni dopo sarebbe finito sotto la gestione comunarda di un gruppo di attori veneratori di Stefano Rodotà, i quali si impantanarono nelle loro fatue ambizioni di farne una «fondazione» e un «bene comune», andava di scena un capolavoro, che già mi era noto come tale per definizione di Alberto Savinio.
Un romanzo latino del II secolo e sempre contemporaneo, Le metamorfosi, anzi, «l' Asino d' oro» di Lucio Apuleio, avendo il suo interprete e regista, Paolo Poli, scelto il secondo titolo, di certo più confacente al suo gusto. Poli interpretava tutti i ruoli, quello del protagonista Lucio, trasformato in asino da un sortilegio, e tutte le maschere - ruffiane, maghi, contadini, mercanti, superbi possidenti - di quell' esotica Roma in piena decadenza.
NIENTE MORALE
Come da tutti i grandi spettacoli, non trassi alcun insegnamento morale dall' avervi assistito, bensì un' immagine, indelebile: Poli che mi guarda negli occhi mentre racconta, con quella cadenzata naturalezza che era un segreto solo suo, e tutte le aspirate dei fiorentini, le peripezie di Lucio. Ne raccontava come un padre di un figlio, non come un attore di un personaggio fittizio.
Il Lucio di Apuleio, nelle parole di Poli, che ogni tanto volgeva lo sguardo in galleria, dov' ero seduto io - non guardava ovviamente me in particolare, seguiva una pratica attoriale di monologare rivolgendosi a uno spettatore - era un ragazzo scapestrato che s' era intossicato di filtri d' amore e perso negli inganni della Roma imperiale, e al tempo stesso era un qualche amico filiale di Poli, qualcuno che lui conosceva non meno del suo creatore, Apuleio, un ragazzo ingenuo e temerario, in cui avrei potuto incocciare uscendo, e girando tra il teatro e il Pantheon, o trovarlo stuporoso, con lo sguardo al cielo, a Largo Argentina.
Quando studiavo al liceo classico, il concetto di «aedo», gli antichi cantori che recitavano i poemi omerici, mi aveva sempre restituito l' immagine di insopportabili fini dicitori che, in interminabili serate in questa o quella reggia, sciorinavano con pronuncia professorale centinaia di versi, per poi, ovviamente, essere passati a fil di spada dal tiranno spazientito.
LA VITA SUL PALCO
Quel giorno, ascoltando Poli, paludato, mascherato, bistrato, sudato, che letteralmente da solo, con un one man show, soffiava la vita - la vita del racconto - in tutta quella folla eterogenea di personaggi apparentemente così surreali, mi fece intuire cosa dovessero essere gli antichi aedi greci.
E con la cultura antica greca, Poli aveva un altro tratto in comune, ben noto: la sua spregiudicatezza morale, e in particolare sessuale, che aveva davvero qualcosa di pagano. Nella concezione greca dei vizi, questi non possono e non devono essere espiati, se non in quanto, come ogni comportamento, escono fuori dalla misura razionale.
In sé, sono parte della natura umana, e il desiderio sessuale, anche quello omoerotico, è talmente violento nella natura di alcuni che, come disse Sofocle, somiglia a un padrone (del corpo) folle e furioso. In altre parole, il vizio attiene alle passioni, cioè ai moti sprigionati dall' anima concupiscente.
Non c' è colpa, non c' è peccato, c' è solo, per il benessere dell' individuo, il tentativo di far sì che le passioni non diventino ossessioni, non distruggano l' equilibrio, l' ordine psicologico, che l' uomo greco vedeva come ideale di saggezza. Di nuovo, come nel caso degli aedi, mi è difficile immaginare cosa fosse l' omoerotismo nell' antica Grecia, intendo dire non quello delle sfrenatezze orgiastiche, ma quello che correva come melodia sottile di lira tra Socrate e Alcibiade.
Anche in questa materia, l' apollineo genio di Paolo Poli mi ammaestrò, e impose la sua misura di stile: come esiste la «messa di voce» di Maria Callas (Gioconda di Ponchielli, incisione del 1952), esiste l' en travesti di Paolo Poli (La Nemica di Niccodemi, nel ruolo della madre, registrato nel 1970 e trasmesso solo sei anni dopo).
Poli nei panni di madre era subito Gloria Swanson, magnificenza in rovina, fulgidi passati di tragédienne, di cui resta il bagliore in gesti di irresistibile sensualità - lo spalancarsi delle falde di una mantella - , sì, omoerotica.
Ma l' omoerotismo di Poli era, da un lato, quello naturalmente vizioso, e pericoloso, e scandaloso, e filosofico, di cui ben sapevano i Greci, per i quali, come ricordava lo scrittore James Purdy, l' amore era una faccenda tremenda e formidabile, non «la panna montata» dei romanzi odierni. Dall' altro non fu mai parata carnascialesca, piazzata politica, occupazione ideologica, molestia moralistica e conformista, slogan dal palco, rivendicazione di normalità baciapile. Cioè altre varianti della «panna montata», nell' animosa sceneggiata dei diritti civili.
RISPETTO PER TUTTI
L' omosessualità, il dichiararsi «finocchio» di Poli fu sempre colmo, direi traboccante di rispetto per chiunque, tranne per chi pretendesse, a un uomo della sua levatura, della sua dotazione, del suo genio, togliere il gusto di esplicare fino in fondo quegli enormi doni che la natura stessa, la signora en travesti che tutti ci abbraccia, gli aveva assegnato.
3. LA BIOGRAFIA DI PAOLO POLI
Giorgio Dell’Arti - Catalogo dei viventi 2015 (in preparazione) - scheda aggiornata al 17 luglio 2014 - da Alberto Spada
Firenze 23 maggio 1929. Attore. Da ultimo in teatro con Aquiloni, spettacolo liberamente tratto da Giovanni Pascoli, «non un omaggio al poeta, bensì una rappresaglia bonaria contro il Pascoli tradizionale tormentone scolastico» (Francesca Motta). «I difetti di pronuncia chi li ha se li tenga cari».
• Attore di meravigliosa femminilità, crea spettacoli tutti suoi dove appare per quanto possibile travestito da donna. La Santa Rita da Cascia, nel 1967 all’Odeon di Milano, provocò l’intervento della polizia e la fine della serata. A quell’epoca faceva anche La nemica di Nicodemi ed era, naturalmente, la perfida madre che non ama il figlio suo.
• Figlio di un carabiniere, cinque tra fratelli e sorelle. «Ho capito di essere gay fin da piccolissimo. C’era il fornaio: lo adoravo. Poi andai al cinema a vedere King Kong e capii che mi garbava. Allora alle femmine si regalava la bambola e ai maschi il fucilino. Mi sparai in un occhio, stetti un anno con la benda. Che, per la verità, mi dava un fascino piratesco... Il mio babbo e la mia mamma lo seppero da sempre e mi amarono per quello che ero, non per quello che avrei dovuto essere. Mia madre aveva una cultura laica, era una maestra montessoriana.
Diceva: “Se è intelligente, il bambino impara da solo”. Ho fatto la terza perché sono andato a scuola da me, la prima e la seconda le ho saltate. Sapevo leggere e scrivere fin da piccolino. In casa avevo l’Artusi, L’arte di mangiar bene. Un libro delizioso: “La cucina è una bricconcella che spesse volte fa disperare. Fatevi avanti, signor polpettone”. E così via».
• «Da bambino stavo sempre allo specchio, perché le suore dicevano: “Non state troppo allo specchio, che viene il diavolo”. E io allora lo fissavo questo specchio, finché mi veniva un lampo negli occhi e capivo che il diavolo ero io. Importantissimo l’insegnamento delle monache».
• «Si passa alla storia o come grandi amatrici o come grandi lavoratori. Io come troia non so se ho avuto tutto questo seguito. Oggi c’è più apertura. Ma solo di parata. Quando ero giovane nessuno mi ha mai ammazzato. Sono stato bionda ossigenata. Che per una donna voleva dire essere poco seria, e per un uomo essere finocchio» (a Enrica Brocardo).
• «Un maestro della parodia, uno che ha lasciato un’impronta indelebile nel teatro italiano, fin da quando, nel 1949, cominciò a calcare le scene. “Ma mi lasci raccontare la mia vita come fossi il notaio di un romanzo di Jane Austen: sono nato nella prima metà del secolo a Firenze, ho fatto studi regolari, mi sono laureato in Lettere con una tesi sul teatro francese dell’800.
Sono stato attore amatoriale, poi radiofonico nei primi anni Cinquanta; quando arrivai a Cinecittà feci, nella nuova edizione strappalacrime delle Due orfanelle insieme a Milly Vitale e Miriam Bru, la parte che con la Valli e la Denis faceva Osvaldo Valenti. Poi ho insegnato al liceo francese, a Roma ho incontrato Aldo Trionfo, che faceva l’aiuto di Visconti in Senso, e con lui, a Genova, ho fondato la Borsa di Arlecchino. Poi siamo venuti a Milano, al teatro Gerolamo, la cui dimensione, per me che avevo fatto anche il burattinaio, era entusiasmante”. Eccetera eccetera» (Maurizio Porro).
• «Fra i suoi molteplici volti nascosti, c’è essenzialmente quello d’un soave, ben educato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli d’agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi, la crudeltà efferata e la casta e savia innocenza» (Natalia Ginzburg).
• Alla Rai degli anni Sessanta faceva soprattutto programmi per famiglie, sketch graziosi dove recitava cantava e qualche volta danzava e in cui la sua forza eversiva era totalmente ignorata. Nella Canzonissima 1961-1962 fece coppia con la Mondaini: «Si fece una robina-ina-ina. Lei sapeva fare la bambina piccina e allora anch’io feci il bambino. Io ero quello buono e lei quella cattiva, che mi faceva i dispetti. Le famiglie si divertivano: “Guarda, proprio come la nipotina”».
• «Io ho fatto il teatro perché l’ho amato da sempre, non come un rifugio, come fanno oggi quelli che non hanno più successo al cinema o alla tv. Mi piace il teatro perché è vivo, così come mi piaceva insegnare, osservare gli occhi cattivi di quei bambini: insomma, diciamo che mi sono speso per far attecchire un po’ di cultura, in un momento in cui basta disegnare O col bicchiere per diventare filosofi. Mi sono applicato alla pratica e non alla grammatica, come mia mamma diceva della Montessori: abbiamo lo stesso difetto. Il complimento che preferisco è quello che si faceva alle signorine così così: che belle gambe, che bei capelli».
• «Sto sempre da solo. Non ho la tata o la cuoca affezionata. Mangio nei ristoranti o vo dalla mia sorellina Lucia che per me è come una figlia, perché quando io avevo vent’anni lei ne aveva nove. Le facevo i compiti, l’accompagnavo a scuola».
• «Tutte le donne che ho conosciuto erano delle virago, altrimenti non ce l’avrebbero fatta. Ai tempi della Dolce Vita con Laura Betti si campò una settimana a noccioline e whisky. Però che belle magre eravamo, io e lei. Belle e magre: bisogna imparare a fare il plurale al femminile. Quelle di adesso son tutte bonine, raccontano i loro matrimoni. L’unica che stimo è mia sorella Lucia. Lei è un genio. Il suo uomo sta al piano terreno, lei al primo, il figlio al quarto, un grattacielo di felicità».
• «Il bello degli amori omosessuali è la loro libertà e la loro riprovazione. Le nozze tra gay non mi interessano, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e sentirmi chiedere che cosa voglio per cena...» (ad Aldo Cazzullo).
• Il 2 marzo 2007 è stato nominato grande ufficiale della Repubblica.
Ultimi Dagoreport
“L'INSEDIAMENTO DI TRUMP ASSUME LE SEMBIANZE DEL FUNERALE DELLA DEMOCRAZIA IN AMERICA, SANCITO DA…
DAGOREPORT – HAI VOGLIA A FAR PASSARE IL VIAGGIO A WASHINGTON DA TRUMP COME "INFORMALE": GIORGIA…
DAGOREPORT - COSA VOGLIONO FARE I CENTRISTI CHE SI SONO RIUNITI A MILANO E ORVIETO: UNA NUOVA…
DAGOREPORT - ‘’RESTO FINCHÉ AVRÒ LA FIDUCIA DI GIORGIA. ORA DECIDE LEI”, SIBILA LA PITONESSA. ESSÌ,…
DAGOREPORT - SUL PIÙ TURBOLENTO CAMBIO D'EPOCA CHE SI POSSA IMMAGINARE, NEL MOMENTO IN CUI CRISI…