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DAGOREPORT – GIORGIA MELONI, FORSE PER LA PRIMA VOLTA DA QUANDO È A PALAZZO CHIGI, È FINITA IN UN…
Giusi Ferré per âIl CorrierEconomia'
Dopo il red carpet. Dopo la cena di gala. Dopo i festeggiamenti, i complimenti, la nostalgia, le fotografie, compreso il selfie di Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia , incoronata da Domenico Dolce, Stefano Gabbana e il premier Matteo Renzi, la mostra «The Glamour of Italian Fashion 1945-2014» ha spalancato i battenti al V&A di Londra e resterà aperta al pubblico fino al 27 luglio. Grande, insomma, è stata l'eccitazione intorno a questa retrospettiva sull'abbigliamento italiano: unica per la quantità dei pezzi esposti (120 raccolti con il contributo del Metropolitan Museum of Modern Art di New York) ma soprattutto perché si tratta delle prima collettiva di questo respiro sul fashion italiano.
Ora, se pensiamo che questo settore è ritenuto, per lo meno all'estero, uno dei valori della nostra immagine e sempre in attivo nelle esportazioni, possiamo tranquillamente affermare che è stata un'occasione sprecata. E non soltanto perché mancava il contributo di un curatore italiano, ma perché appare evidente la mancanza di una riflessione profonda su questi temi.
Non a caso, secondo Maria Luisa Frisa, storica e direttrice del corso di laurea in Design della moda dello Iuav di Venezia, «la sezione meglio riuscita è quella dedicata alla Sala Bianca di Palazzo Pitti, con le prime sfilate veramente internazionali organizzate da Giambattista Giorgini, antesignano nel riflettere sull'identità della moda come industria del bello, inserita in un contesto estetico adeguato. Manca invece l'osservazione della fase di passaggio dalla moda boutique alla grande stagione del prêt-à -porter. Non è ben delineata Milano, non c'è la rappresentazione di questa metropoli, capitale del design e della moda, dunque della capacità di progettare e realizzare in serie».
Ma la città di Albini, Armani, Ferré, Versace, Dolce&Gabbana, Prada è anche quella che, fingendo di parlarne per decenni, non è mai riuscita nemmeno a immaginare un museo della moda. Anche se la storia sofferta del Museo del design alla Triennale, discusso per anni, qualcosa insegna sulla difficoltà dell'agire collettivo in questo Paese.
«Eppure è un passaggio fondamentale per fare chiarezza anche sul presente. In una fase dove il recupero della tradizione e della manualità viene confuso con il vernacolare e il pittoresco - continua Frisa - con lo stereotipo del calzolaio dalle mani d'oro chiuso nella sua bottega. Mentre la qualità assoluta della moda italiana deriva proprio dall'artigianalità messa al servizio di quella produttività industriale che è unica al mondo».
Esiste però, in questo disordinato giacimento di meraviglie che è l'Italia, un museo che potrebbe, riorganizzato e sostenuto, diventare una specie di Victoria&Albert nazionale: la Galleria del Costume di Firenze, che ha una magnifica raccolta di abiti, da Yohji Yamamoto alla ricca donazione di Gianfranco Ferré, oltre a importanti pezzi storici. Collegata alla Galleria degli argenti e opportunamente rivalutata, potrebbe rappresentare l'evoluzione dei tempi nella vita quotidiana. Quanto a Milano, potrebbe forse incrociarsi con la Triennale ispirandosi al Museo del design e alla sua agilità di contenuti. Ma dovrebbe anche essere convinta che quella della moda è una riflessione culturale e sociale, non il girotondo inutile dei vestiti.
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