MANCANZA DI GARBOLI - ROSETTA LOY RACCONTA LA SUA INCANDESCENTE STORIA CON IL CRITICO CESARE GARBOLI: “UNA VOLTA MI DIEDE UNO SCHIAFFO E POI MI DISSE CHE S’ERA PRESO A CEFFONI ANCHE CON SUNI AGNELLI. NON RISI E LUI NON CI RIPROVÒ”

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Simonetta Fiori per “la Repubblica”

 

CESARE GARBOLI E ROSETTA LOYCESARE GARBOLI E ROSETTA LOY

Tre decenni di amore e pagine scritte, ravvivati dal colore imprevedibile della follia. Grande narratrice di guerra e sentimenti, per la prima volta Rosetta Loy racconta la sua storia con Cesare Garboli, uno dei critici più insoliti e geniali della letteratura italiana. Comincia così una nuova esplorazione tra le ragioni del cuore e quelle della mente, una galleria di personaggi pubblici narrati attraverso le emozioni private di chi ne ha condiviso un tratto di vita. Il viaggio inizia in una casa immersa nel verde, appena fuori Roma, tra le pareti che palpitano di storie famigliari. Intorno a noi una serie di istantanee che ritraggono Rosetta bambina vestita alla marinara.

 

E la tribù allegra con Peppe e i loro quattro figli, l’aristocrazia sarda del marito Loy di cui avrebbe mantenuto il cognome da scrittrice. Poi una buffa immagine di Garboli, l’occhio stralunato e il sorriso dell’istrione. Come se ci guardasse, un po’ perplesso.

 

Come vi siete conosciuti?

«Ci fece incontrare La bicicletta, il mio primo romanzo. Nel 1974 era uscito un estratto su Paragone, lui lo lesse e ne parlò con Natalia Ginzburg, che adorava Cesare e teneva in gran conto il suo giudizio».

 

Quindi lei era affascinata dal critico letterario.

rosetta loyrosetta loy

«Non solo. Cesare era anche un uomo bellissimo, eccentrico, un po’ folle. Persi la testa. Avevo 44 anni e fino a quel momento ero stata una moglie fedele».

 

Che cosa l’attrasse?

«Una totale sincerità, nella vita e nella letteratura. Riteneva che mentire o imbrogliare fosse moralmente inaccettabile. Una forma di rettitudine che lui poteva esercitare anche con brutalità. Ricordo perfettamente la seconda volta che andai a trovarlo, nella sua casa di via Borgognona. Cominciò una passione molto intensa ma finita prestissimo».

 

Perché?

«Dopo un paio di mesi, lui si innamorò perdutamente di una ragazza molto più giovane, e andarono a vivere insieme».

 

E lei, Rosetta?

«Mi sono ammalata. Una depressione che forse veniva da lontano. Mi volli punire facendo un’operazione alle palpebre, l’unico intervento estetico che abbia segnato il mio viso. Ma quando riaprii gli occhi allo specchio vidi un mostro. Il periodo buio sarebbe durato un paio di anni. Se non avessi avuto i figli mi sarei uccisa».

 

Garboli non lo sentiva più?

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«Non sentivo più nessuno. L’unico conforto era tenere la mano di Peppe, mio marito. Quando stetti un po’ meglio andai a lavorare a Noi Donne. Ma non potevo più scrivere romanzi perché non ero in grado di affrontare me stessa».

 

Poi però la storia sentimentale ricominciò.

«Sì, nel 1979 riprendemmo a vederci, perché in realtà non era davvero finita. Io nel frattempo ero molto cambiata, la depressione mi aveva reso più guardinga. Però tra noi il trasporto era totale».

 

Non vi sareste più lasciati.

«Fu molto buono con me dopo la morte improvvisa di Peppe. A 53 anni, un infarto nella notte. Uno shock terribile, con molti sensi di colpa. Come se una montagna mi fosse caduta addosso. Cesare a quel punto mi scelse».

 

La storia con la ragazza più giovane era durata poco.

«Lui non era adatto a convivenze. Poteva essere anche violento. Ire improvvise, terribili, ingiustificate».

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Anche con lei?

«Una volta mi diede uno schiaffo. Scesi dalla macchina e lui ci impiegò un bel po’ per farmi risalire. Per me era intollerabile. Perfino mio padre non mi aveva mai sfiorato, se non la volta che diedi un morso a mia sorella. Per farmi sorridere Cesare mi raccontò che s’era preso a ceffoni con Susanna Agnelli, per un periodo sua compagna. Non risi per niente. E lui non ci riprovò ».

 

Da dove arrivava questa furia?

«Penso che fosse un po’ schizofrenico, anche per una doppia radice che l’avrebbe condizionato per tutta la vita. Il padre era un grande imprenditore, molto ricco; la mamma una contadina analfabeta. Un gioco di contrasti fortissimo che ne turbò l’infanzia».

 

Era il figlio più piccolo, dopo cinque femmine.

«Altra eccezionale contrapposizione. Quando nacque spararono in aria cento colpi: il saluto al figlio maschio. Poi però fu travolto da queste sorelle, belle ed esuberanti ».

 

C’era un lato femminile in lui?

«Sì. La sua capacità di capire le donne nasceva da lì, sia nella vita che in sede critica. Ma questo rapporto con il femminile nasce in modo squilibrato. Fino ai dodici anni, nella grande casa di Vado, Cesare aveva dormito nella stessa stanza dei genitori su una branda: vicino a sé una cassetta dove riporre le sue cose. Quando lamentava qualche dolore, la mamma passava il ferro da stiro sulla parte indolenzita. Intelligentissima e analfabeta: una mamma così avrebbe pesato su Cesare come un handicap».

 

Parlava della sua radice contadina?

«No, non raccontava mai la sua origine. Credo volesse tenerla nascosta. Ma in generale raccontava poco di sé, delle sue storie d’amore, con Susanna Agnelli o Virginia Mondadori. Tutte donne più grandi».

 

Come si manifestava la sua nevrosi?

«Urla inaspettate. Nei primi tempi in cui stavamo insieme, metteva in scena gelosie ridicole. Ma come puoi essere geloso di quello là?, provavo a difendermi con imbarazzo. Non ero abituata alle scenate in pubblico, riservata per indole e per educazione ».

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C’era anche una componente teatrale?

«Ah sì, un attore nato. Per questo era molto divertente. Anche al ristorante era capace di allestire spettacoli irresistibili tra camerieri e commensali».

 

Ma forse anche l’istrionismo era un modo per nascondersi?

«Credo che abbia sofferto per tutta la vita di un senso d’inferiorità che gli derivava dalla sua infanzia. Era suscettibile in modo pazzesco. Si urtava per cose stupide. A volte mi sembrava di colpirlo al cuore».

 

Aveva paura di mostrarsi anche attraverso la scrittura. Non a caso si dedicava ai libri degli altri rinunciando a un libro suo.

«Aveva paura di esprimere se stesso. A chi gli chiedeva la ragione di questo timore lui rispondeva che aveva paura di non piacersi, di non riconoscersi. Era impossibile per lui scrivere di sé. Avrebbe dovuto affrontare difetti e limiti, per lui la fine del mondo. Una volta in montagna qualcuno gli fece notare un errore in una sua nota letteraria. Fine della vacanza. L’umore rovinato per sempre. Si sentiva colpevole: non era ammissibile che lui commettesse errori ».

 

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Mai pensato di andare in analisi?

«No, figuriamoci, detestava l’idea che qualcuno entrasse dentro di lui».

 

Però lui era capace di farlo, almeno nell’esercizio della critica.

«Aveva un’intelligenza folgorante. Capiva in anticipo quello che agli altri sfuggiva, ma non solo in ambito letterario. Dopo il sequestro Moro, decise di andarsene via da Roma e mollare tutto: l’Italia gli appariva un paese finito. E lui doveva cambiare vita ».

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L’ha mai visto piangere?

«Mai. Ma non credo che Cesare sapesse neppure piangere. Fu straordinario nella malattia: non fece mai pesare la sua condizione. La morte arrivò improvvisa, anche se annunciata dal tumore. Chiamai Carlo Cecchi fuori di me, un pianto ininterrotto. “Ma cosa dici? sei pazza?”, mi diceva Carlo che gli è stato vicino fino all’ultimo. Cesare morto era impensabile».

 

Cosa le manca di più?

«Mi mancano le sue sfuriate, i suoi giudizi severi. Come scrittrice gli devo molto. Poteva anche offendere, sempre con quel suo modo esuberante: ma cos’è questa porcheria?, cosa ti è venuto in mente, devi rimetterci le mani... La mia animuccia borghese restava ferita, senza cogliere un aspetto fondamentale: l’enorme generosità. Interrompeva i suoi studi su Molière o Pascoli per dedicarsi al mio lavoro. Lo davo per scontato, ma non lo era. Era il suo modo di amarmi, anche se ti amo forse non me l’ha mai detto».

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Con i sentimenti non era teatrale.

CESARE GARBOLI E ROSETTA LOYCESARE GARBOLI E ROSETTA LOY

«No, lì era assolutamente vero».