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VESTIVAMO ALLA MONTANARA – MAURO CORONA ON FIRE A “OGGI”: "VINCENZO DE LUCA MI HA DEFINITO “CAPRAIO AFGHANO”? È UN POVERO DIAVOLO. MI RICORDA CECCHI PAONE. CERTE PERSONE MERITEREBBERO DI ESSERE MENATE - IO INNAMORATO DI BIANCA BERLINGUER? MANCO MORTO. RECITIAMO” – L’ALCOL, LA VOLTA CHE VOLEVA BRUCIARE LE URNE DURANTE LE ELEZIONI, GLI 8 GIORNI DI CARCERE CON L’ACCUSA DI AVER PICCHIATO UN CARABINIERE, LA MORTE MISTERIOSA DEL FRATELLO E L’EROS VENERANDO: “MI SONO INNAMORATO DA VECCHIO, SENZA QUELL’AGGRESSIVITÀ DELLA PASSIONE DI UN CAMOSCIO A NOVEMBRE” - IL LIBRO

Maria Giuseppina Buonanno per Oggi – www.oggi.it

 

Per chiudere in un recinto timidezza, paure, insicurezze, fragilità faccio il duro: è una recita dell’arroganza e della maleducazione. Ma io non sono così

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Dimenticate per un po’ quello che mostra in tv, in È sempre cartabianca. Difficile? No, se si prende la strada che porta al suo ultimo libro, Le altalene. Qui Mauro Corona racconta, con voce quieta, intima e poetica, la storia di un «vecchio di 73 anni». E parla di sé. Il libro scolpisce figure complicate, vite intricate, ferite dolorose. Attraverso la narrazione, in forma di romanzo, lo scrittore ricorda la violenza del padre verso i tre figli e verso la moglie (anche di quando la colpiva con l’accetta), la fuga e l’abbandono della madre, quel «sentirsi orfani di genitori vivi», e poi la morte misteriosa del fratello, la convivenza con l’alcol, la malattia che irrompe a render fragile il ruolo di genitore. Intorno, l’antica povertà della montagna, la tragedia del Vajont di 60 anni fa, «quando piovve terra sulla terra e terra nell’acqua».

 

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Sofferenza e speranza oscillano, come su altalene, nelle parole dello scrittore di Erto (Pordenone), che è stato pastore, operaio di una cava di marmo, che scala vette da sempre, e ancora, che di notte crea sculture di legno e riempie quaderni fitti di storie. «È il mio libro testamento», dice Mauro Corona del romanzo Le altalene, da un po’ nella classifica dei più letti. Intanto se la prende col mondo che gli sta intorno. Anche quando gli si chiede di mettere camicia e giacca nell’impegno-missione di fare una foto di “storica unicità”, lui che è abituato a “vestire alla montanara”.

 

«Per chiudere in un recinto paure, insicurezze, fragilità, faccio il duro: è una recita dell’arroganza e della maleducazione. Ma non sono così», dice lo scrittore. «E visto che spesso mi accompagna il pensiero della morte, in questo libro ho voluto raccontare chi sono davvero: l’ho scritto per non morire frainteso. E da quando l’ho finito, mi sento in pace. Io non sono molto amato, neppure dai miei compaesani».

 

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La morte di suo fratello Felice, a 17 anni, in Germania è rimasta un mistero…

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«Voglio rivolgermi a Chi l’ha visto? per capire come è morto in un giorno di giugno del 1968. Aveva accettato di andare a fare il gelataio in Germania su proposta di Antonio Toscani del Moro. Partì a marzo, fu ritrovato a Paderborn, nella piscina di una villa, con la testa rotta. Là intorno c’erano cocci di bottiglie. Voglio ritrovare chi era con lui e capire che cosa è successo, parlare con il figlio del padrone della gelateria, se è ancora vivo. Non ho nessun desiderio di vendetta. Mio fratello era bello, era andato via per scappare dalla miseria. Tornò in una cassa. Chi gli aveva dato lavoro non venne al funerale. Nessuno ci ha spiegato nulla, neppure la polizia».

 

Le manca la Rai, dopo il passaggio di Bianca Berlinguer da Rai 3 a Rete 4?

«No. Ma non so se duro qui. Io e la Bianchina siamo uguali: vogliamo la libertà. Che c’è, certo. E anche gli ascolti ci sono. Ma se io dicessi sempre ciò che penso, andrei in galera».

 

C’è chi guarda quel talk per il vostro siparietto…

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«Mi fa piacere. Io ho la terza media. Sono partito da Erto pieno di lividi. I nemici sono anche lì. Ma io rimango lì, quel paese che Giovanni Commisso definì “quel sinistro villaggio”. Rimango perché là ci sono i miei quattro figli. Tre hanno avuto malattie che solo a nominarle cadi a terra. Ecco perché resto lì. Sennò me ne andrei. Mi sono arrampicato su quelle montagne da sempre, ma ora nella mia testa le vedo ostili.

 

Mi ricordano l’infanzia. Ci andavo con le capre, con le mucche. Ora sento ancora la costrizione di salire lassù. Sento fitte di odio. Preferisco andare a scalare o a camminare a Misurina e in altre zone. Quando sei vecchio torna tutto a presentarti il conto».

 

I nonni, una zia sordomuta sono stati àncore.

MAURO CORONA CAVALCA UN ORSO MEME

«Angeli custodi. Mia madre ci abbandonò quando io avevo 6 anni, mio fratello Felice ne aveva 5, l’altro, che poi ha fatto il minatore, aveva quattro mesi. Quando è tornata avevo 13 anni. Non volevo neanche vederla. Il rapporto con mio padre e mia madre è stato sempre pessimo. Di odio ricambiato. Quando sono morti mi sono sentito liberato da un peso».

 

È andato via di casa per non uccidere suo padre.

«Quando tornavo a casa, complice le bevute, c’erano sempre risse. Sono andato via a 17 anni. Mi sono sistemato in una baita senza luce elettrica. C’erano ragnatele e un fiasco di vino sul tavolo».

 

Il presidente Vincenzo De Luca l’ha chiamata “capraio afghano” si è offeso? Avete chiarito?

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«Credo che abbia offeso i caprai afghani. De Luca un po’ mi somiglia. Ma se avesse ascoltato quello che dico in tv avrebbe capito che questo capraio ha anche un po’ di cultura. Per me è un povero diavolo, un misto di buffone e filosofastro, come diceva Macedonio Fernandez, maestro di Borges, del protagonista di un romanzo di Hilario Ascásubi. Mi ricorda Cecchi Paone che ha chiesto di togliermi dal programma di Bianchina. Certe persone meriterebbero di essere menate».

 

Come ha conosciuto Bianca Berlinguer?

«Ho fatto una prima ospitata nel suo programma, che ha portato ascolto e mi hanno richiamato. Poi mi hanno fatto un contrattino. Ed è nato il duo comico».

 

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Mai si è un po’ innamorato di Bianchina?

«Manco morto. Recitiamo».

 

Come va con l’alcol?

«È stato sempre un mio problema. Sono riuscito a smettere, per rispetto dei miei figli, per cinque anni. Poi ho ripreso a bere, ho smesso di nuovo, ho ripreso di nuovo. Dell’alcol non ti liberi, lo sospendi, ma è una vipera che ti morde e rimane dentro. Mi impegno a tenerlo sotto controllo».

 

È stato processato per sequestro di persona, bestemmia in luogo sacro, interruzione di funzione religiosa. Pentito di certe intemperanze?

«Non mi pento di niente. Ho rimorsi dolorosi solo verso i miei genitori. Alcune cose non le farei più, mi sono beccato una decina di processi, per bracconaggio, ubriachezza molesta, danneggiamento dei beni dello Stato perché una volta volevo bruciare le urne durante le elezioni. Ho fatto anche otto giorni di carcere con l’accusa di aver picchiato un carabiniere».

 

 

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Qual è il lavoro più faticoso che ha fatto?

«Nel 1975 ero senza soldi e un galantuomo di Sacile mi commissionò una Via Crucis. Mi diede 2 milioni di lire. Fu un santo. Si chiamava Renato Gaiotti, era un imprenditore del legname. Non sapevo da dove cominciare. Andavo di notte nella chiesa di Erto: staccavo i pannelli delle stazioni, le portavo via e le copiavo. In tre mesi ho scolpito la mia Via Crucis, senza il banco, con sgorbie che avevo costruito io. Avevo bisogno di quei soldi. Ora la Via Crucis è nel Duomo di Sacile. Per crescere i figli facevo le sculture. Con mia moglie abbiamo dormito per anni ognuno nel proprio sacco a pelo. Non avevamo mobili».

 

È separato?

«No. Viviamo vicini, ma ognuno per conto proprio. Beviamo qualche bicchiere insieme. Ma i matrimoni sono come le falci che si usano per l’erba: devi affilarle quando si consumano. In un amore che si consuma deve rimanere il rispetto e l’affetto».

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E amori che nascono?

Ho voluto raccontare chi sono davvero: per non morire frainteso. E ora mi sento in pace

«Voglio bene a una persona».

 

Di questo sentimento lo scrittore non vuole parlare. Ma poi, più tardi, un po’ racconta. Così: «Grazie a lei sono migliorato. Mi sono innamorato da vecchio. Ho conosciuto l’eros venerando. Senza quell’aggressività della passione di un camoscio a novembre».

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