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1. MENTANA, DI NESSUN INTERESSE INTERVISTA A RIINA JR
(ANSA) - L'invito di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina "non mi è piaciuto ma ho detto che intervistare il figlio di Riina in occasione dell'uscita del suo libro non è un'operazione di giornalismo verità. Solo che poi hanno tolto verità e hanno scritto che non era giornalismo...". Lo ha detto il direttore del TgLa7 Enrico Mentana a Un Giorno da Pecora.
Dice che è una marchetta? "No - ha risposto il giornalista -, non è un marchetta. Ma è chiaro che chi esce con un suo libro ha interesse a veicolare il contenuto del libro, sennò sarebbe un cretino. Facciamo degli esempi. Un conto sono il figlio di Renzi, il figlio dell'allenatore della Juventus o di Obama, un conto è Renzi, l'allenatore della Juve oppure Obama. Insomma, un conto sono loro e un conto i parenti.
Che cosa ha da dirmi il figlio di Riina? Abbiamo già pagato con gli interessi il figlio di Ciancimino". Quindi lei non l'avrebbe intervistato? "A me di interessare il figlio di Riina non me ne poteva interessare di meno. Nelle risposte del figlio di Riina non c'era nulla: né di bello, né di brutto né di interessante".
2. LE DOMANDE CHE MANCAVANO
Francesco Merlo per “la Repubblica”
Guardate che intervistare il figlio di un mafioso assassino è una grande occasione perduta del giornalismo.
Truman Capote ne avrebbe fatto un’epica, Biagi un libro. Sciascia rubò l’anima a Genco Russo e Montanelli a don Calò. E il nostro Attilio Bolzoni si fece raccontare proprio dalla figlia di Totò Riina, dalla sorella di questo Salvo che abbiamo visto mercoledì sera da Vespa, cosa significasse essere donna nella cucina della mafia.
Ecco perché lo “scandalo Vespa” non può essere rimosso con le censure, che sono più odiose delle intervistacce fatte male. È vero che il figlio di Totò Riina è entrato a Porta a Porta come mafioso certificato con il doppio bollo, dei giudici e della famiglia, ed è uscito con la promozione a bravo figlio di mamma: «Amo mio padre e mia madre. Giudico ciò che mi hanno trasmesso: il bene e il rispetto». Ma è sovietica l’idea che la trasmissione dovesse essere bloccata e sostituita con una bella replica di Montalbano.
Da che mondo è mondo infatti il giornalismo intervista i cattivi, i malfattori, i malavitosi e racconta anche le mani insanguinate, i peggiori dittatori, i criminali più efferati. Certo, ci vuole la distanza che Vespa non ha, e bisogna fare le domande vere, incalzare, persino irridere. E senza bisogno di essere mafiologi. Ecco, regaliamo al collega Vespa qualche esempio, qualche frase diretta: «Ma perché fai lo scemo e fingi di non sapere cos’è la mafia»?
O ancora: «Quanti anni hai, dove hai vissuto sino adesso, non sai che tuo padre ordinava di sciogliere i corpi nell’acido?». Di più: «Ma non capisci il destino che hai davanti, non ti rendi conto che le malefatte di tuo papà condannano per sempre anche te? Perché non reagisci? Ma di quale bene parli?».
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Certo, devi strapazzarlo un po’, mettere a disagio la sua complicità: «Spiegaci le cose che hai sentito. Su, abbi coraggio, non è possibile che tu abbia visto solo le carezze che faceva a te e non ti passi per la testa che se sta in galera è perché se lo merita».
Ovviamente il giornalista non deve avere l’idea di essere stato scritturato dallo stesso impresario del suo intervistato, come nella famosa pantomima della sedia spolverata di Travaglio, quando Santoro e Berlusconi arrivarono a nove milioni di spettatori (gli stessi della partita Germania-Italia).
Purtroppo Vespa ha intervistato il figlio di Riina, che lombrosianamente somiglia fisicamente a suo papà molto più di quanto si somiglino i loro certificati penali, con l’identico ruffianesimo e con la stessa dolce impertinenza che riserva a tutti i suoi ospiti.
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Ha trattato il mafioso come tratta Renzi e come ha sempre trattato tutti i politici che infatti già ai tempi della Prima Repubblica elevarono la sua trasmissione a Terza Camera del Paese, un’istituzione untuosamente affettuosa dove annunziare, spiegare, fare campagna elettorale.
E Vespa aveva già promosso i parenti dei Casamonica da mafiosi del territorio a monelli di strada, e il gangster kitsch era diventato un capo zingaro folcloristico: «Per noi Vittorio era un re, era un Papa Buono, assomigliava al Papa Buono che era Woityla».
E avevano trattato, il giornalista Vespa in combutta con il papà del feroce Manuel Foffo, le trenta coltellate e le tante martellate al povero Luca Varani con la stessa severità con cui si tratta una sosta vietata: «Manuel è sempre stato un ragazzo modello, contro la violenza. Un ragazzo molto buono».
E tuttavia non c’è oggi nessuna Commissione bulgara e nessun Minculpop che abbiano il diritto politico di sdottoreggiare sul giornalismo, anche quando è naturaliter corrivo come questo di Vespa, e soprattutto quando la corrività è stata incoraggiata, protetta e premiata da quegli stessi che adesso lo vorrebbero censurare.
La politica vuole governare il giornalismo solo per asservirlo, e anche gli eccessi di retorica e le prese di distanza sono furbizie, così come le solidarietà sono crediti da esigere, cambiali di gratitudine, posti riservati nella future puntate di Porta a Porta.
Di sicuro è comprensibile lo sdegno, soprattutto nel mondo nostro di Repubblica che da sempre denuncia il giornalismo di Vespa come sapienza manipolatrice. Infatti Vespa conosce il mestiere ed è proprio questo che lo rende abile nel manipolare.
Lo penso e lo scrivo, com’è mio diritto e dovere, da quando ero ancora praticante, in tutti i giornali nei quali ho lavorato. E tuttavia la libertà nel giornalismo è aggiungere, non togliere; è correggere, mai sopprimere; è criticare, mai zittire. La Rai ha tutto il tempo per fare e per rifarsi.
Ma senza dimenticare che due sere prima Vespa aveva intervistato Maria Elena Boschi sempre ammiccando nel ruolo di spalla- antagonista come il famoso onorevole Trombetta di Totò.
Il punto è che ogni volta che Vespa entra in scena, il muscolo della memoria si flette nel tempo e scorrono nello specchietto retrovisore il risotto di D’Alema, la scrivania di Berlusconi, le lacrime di Bersani, il selfie con Grillo … Insomma come tutti i giornalisti - che scrivano o vadano in tv - anche Vespa porta sulle spalle la propria reputazione, la propria carriera, la propria opera omnia, la propria cifra.
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Ecco perché fanno sorridere i paragoni che Vespa si concede con i maestri del giornalismo televisivo che intervistarono Sindona, Liggio, i terroristi… Erano ben diverse le cifre di Biagi appunto, di Zavoli, Marrazzo e Barbato.
Non sappiamo cosa esattamente Vespa avesse concordato con l’avvocato di Salvo Riina e con l’editore (“A nordest”) di questa Recherche , il cui titolo anglo mafioso è Riina. Family Life.
Sappiamo però che da giorni, da quando è apparsa una pagina di critica letteraria sul Corriere della sera, tutti i giornalisti delle tv e delle radio hanno chiesto di intervistare il figlio del boss: da Porta a Porta, appunto, sino alla Zanzara di Cruciani.
E sappiamo pure che l’avvocato ha scelto Porta a porta, con le stesse ragioni per cui la scelgono i politici e i potenti: l’affidabilità, quella capacità davvero notevole di cucire per tempo e su misura le interviste e trasformare tutto questo precotto in giornalismo addomesticato.
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Sappiamo anche che Salvo Riina e il suo avvocato solo dopo aver rivisto e approvato l’intervista hanno firmato quella carta ( “liberatoria” si chiama) che a rigore si dovrebbe firmare prima. Evidentemente.
Vespa pensa di compensare anche questo, di potersela cavare con una sorta di par condicio tra mafia e antimafia. Come sempre “la correttezza” diventa in lui un espediente artificioso, una scappatoia formale. A lui e al suo partner di palcoscenico dedichiamo la poesia di Saba che dice: «Non somigliare / a tuo padre». Perché? «Mio padre è stato per me l’assassino ».
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