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Davide Jaccod per “la Stampa”
zerocalcare ogni maledetto lunedi su due logo
«Macché successo. Sono terrorizzato. Ogni volta che esce un mio libro mi aspetto che arrivi qualcuno che mi dice: Calcare, che hai fatto, questa sarà la tua pietra tombale. E’ come una perenne sensazione di stare al crepuscolo». Le certezze sono merce rara, nel mondo di Zerocalcare.
Per il fumettista romano, all’anagrafe Michele Rech, neanche le duecentomila copie già vendute con i libri precedenti sembrano un terreno solido: il mondo dei trentenni che lui vive e racconta è fatto di un precariato strutturale, non (solo) lavorativo ma esistenziale.
E ogni nuovo viaggio è come se fosse un nuovo salto. Un nuovo salto, sì, ma non nel vuoto. Dimentica il mio nome (Bao edizioni, pp. 240 €18), il suo quinto lavoro cartaceo, arrivato ieri nelle librerie come un evento. Lo aspettano i centomila fan della sua pagina Facebook, per esempio, quelli che ogni due settimane acclamano le strisce che lo hanno reso famoso. Sul web, Zerocalcare è un mito.
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I suoi colleghi lo celebrano, da Makkox (che lo ha sobriamente definito «genio stellare») a Gipi, che ha collaborato con lui per un’edizione speciale di Dimentica il mio nome (quattromila copie scomparse in una settimana di preordini, un mese fa). I lettori fanno la gara per il complimento più fragoroso, ma al di là del clamore la sensazione è che il suo successo venga dalla capacità di entrare in sintonia con una generazione che ha pochi miti, e che si riconosce nell’incanto e nel disincanto dei simboli che lui racconta.
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Il mondo di Zerocalcare è agrodolce e popolato da personaggi che mischiano l’autobiografia e un immaginario pop sconfinato. Ci sono una materna Lady Cocca e la testa mozzata di Ned Stark, i Cavalieri dello Zodiaco e Street Fighter, Rasputin e il Pisolone, il G8 di Genova e il Game Boy. «Li prendo – racconta - proprio per rimarcare che sono degli stereotipi. Poi ognuno gli assegna il valore che crede, per il modo in cui li ha vissuti. Poi, non è mica detto che tutti colgano tutte le citazioni: a volte faccio un giro di telefonate tra gli amici, per capire se dei personaggi che ho in testa sono conosciuti oppure no. Però è sempre meglio una citazione non colta che essere ridondante».
Il protagonista di Dimentica il mio nome è ancora una volta un alter ego del suo autore, che si muove accompagnato dalla propria coscienza-armadillo nel rassicurante microcosmo di Rebibbia («E’ strano – scrive Zero – che questa sensazione di protezione me la dia un territorio che vive intorno al più grosso luogo di coercizione di tutta Europa»).
Questa volta il racconto diventa però più intimo, addentrandosi nei misteri della storia della sua famiglia, in uno spazio ambiguo che Michele tiene a lasciare affollato di ombre. «Scrivere questo libro – spiega – è stato super difficile. Non tanto per quello che racconto di me, ma per l’intimità delle altre persone. Mica posso decidere io. Allora mia madre ha letto tutte le parti un po’ a rischio, un po’ le ha approvate. Mio padre, invece, mica l’ha ancora letto. Non so che cosa dirà».
Sembra essere passata una vita da quando Michele, pochi anni fa, distribuiva da solo nelle librerie romane le copie autoprodotte de La profezia dell’armadillo, il suo primo fumetto, che adesso sta diventando un film che segnerà l’esordio alla regia di Valerio Mastandrea. «In qualche modo – dice lui – si chiude un ciclo. Mi accorgo che tante cose che disegnavo allora, oggi non mi appartengono più. Sono cambiato anche io, il momento è diverso. Si cresce, in un certo senso».
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Perché, alla fine, Dimentica il mio nome è un libro su come si fa a diventare adulti oggi. Come un rito di passaggio per una generazione che non ha più vent’anni e prova a smarcarsi dall’idea che l’adolescenza non debba finire mai.
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