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Mattia Ferraresi per “il Foglio”
Mtv ha lanciato il nome per definire la generazione che non sa cos’è Mtv: sono i “founder”, i fondatori. Con una disperata operazione di marketing, il network televisivo in profonda crisi di giovani spettatori si è prodotto in un sondaggio fra i ragazzi nati dopo il dicembre del 2000, fin qui per pigrizia definiti soltanto Generazione Z oppure generazione degli “homelander”, perché sono nati più o meno in contemporanea alla creazione del dipartimento della Sicurezza nazionale (Homeland security). Una generazione definita dal terrore.
Mtv ha interrogato i protagonisti generazionali e sono venute fuori oltre 500 possibilità, tutte tendenzialmente eroiche e cariche di promesse – “regenerator”, “builder”, “disruptor”: altro che homelander – battute infine dalla più epica di tutte. I fondatori richiamano naturalmente i padri fondatori, i teorici di un nuovo inizio, i saltatori di paradigma, ma non è immediatamente chiaro in che modo siano fondatori e cosa abbiano esattamente fondato (o si candidino per fondare).
Ciò che è chiaro, e tutto sommato non è poco, è che i founder non hanno memorie – o hanno memorie molto vaghe – del mondo pre Facebook. Sono nativi del social network, l’analogico lo conoscono come fatto vintage, puro revival, perché tutto sommato sono gli eredi della generazione che s’affanna alla ricerca dell’autenticità.
Ma gli esperti generazionali, di Mtv e non solo, ci dicono anche altre cose su questi teenager. Sono i figli della generazione X, che è l’immagine della spensieratezza delusa, è l’ottimismo frustrato di un mondo che non era il vaso traboccante di possibilità che ci avevano raccontato i baby boomers.
Stretti fra i delusi di mezz’età e i fondatori ci sono i millennial, che dell’ironia per reggere il cinismo e la disillusione generati dalla precarietà come stato esistenziale hanno fatto vanto e bandiera. Non era facile rovesciare il tavolo in loro favore, e loro si sono fatti una risata di fronte alle crisi economiche e ad altre sciagure globali, non avendo la forza ideologica di pensare qualcosa di simile a una rivoluzione.
Tutt’al più un Occupy Wall Street con la bicicletta a scatto fisso, finché non si scopre che i libri di Piketty si leggono più comodamente da Starbucks. Non è chiaro come premesse simili possano generare dei fondatori. Forse perché crescono dando per ovvi nuovi modi di comunicazione e s’identificano senza sforzo nei dettami della sharing economy.
Pure il modello sociale è cambiato, in tutti i sensi: i founder non cresceranno aspettandosi di ricevere una pensione a fine carriera e non si porranno in massa il problema della liceità del matrimonio gay, già risolto per loro da chi li ha preceduti. Sono insicuri, dicono, perché sono figli della suprema precarietà. I loro genitori credevano che almeno la democrazia liberale avrebbe trionfato e la storia fosse finita con la Glasnost, invece poi è ripartita a tutta forza.
Sono realisti, dicono, perché non hanno mai avuto la tentazione di credere in un ideale. Erano delusi e affranti ancora prima di cominciare. Sono definiti più da un vuoto che da un pieno, la loro cifra è l’assenza più che la presenza. Forse “homelander” calzava meglio
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