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Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia
Caro Dago, confesso che invidio molto il titolo che Ernesto Galli della Loggia ha dato al suo ultimo (e bellissimo) libro, “credere tradire vivere”. Ed è l’apologia di quel gruppetto di tipini dei Sessanta (quorum ego) che abbiamo “creduto”, abbiamo “vissuto”, abbiamo “tradito”. Abbiamo creduto passionatamente in quelle frastornanti aspirazioni che stavano scombussolando l’Occidente e la sua fenomenologia quotidiana, ed era un misto di libertarismo, amore del nuovo, speranza di una società migliore, utopie ideali, voglia di fare la nostra parte in questa società che stava cambiando.
Come Ernesto io non sono mai stato comunista un solo istante della mia vita, epperò certo che ero “di sinistra” (un termine che oggi non ha più il benché minimo significato), certo che ero “antifascista” (un termine che già allora non aveva alcun significato), certo che ammiravo i combattenti per l’indipendenza algerina e i partigiani castristi della prima ora (che a dire il vero erano piuttosto liberali che “comunisti”).
Poi abbiamo vissuto, abbiamo letto tanti e tanti e tanti altri libri, ad esempio i libri in cui Raymond Aron faceva a fettine il pensiero politico (?) di Jean-Paul Sarte, i libri che raccontavano ora per ora l’orrore del comunismo reale dappertutto nel mondo (dall’Ungheria alla Cina), i tomoni di Renzo De Felice sul fascismo reale eccetera eccetera.
Poi abbiamo vissuto, abbiamo capito che tutto ciò che è decisivo in una società ha niente a che vedere con le semplificazioni ideologiche e con gli sproloqui ultimativi su chi e come moltiplicherà i pani e i pesci. Abbiamo vissuto e lo sapevo chi fossero quelli che alla mattina presto andavano a uccidere magistrati e giornalisti, erano “i nostri”. Abbiamo vissuto, e per quanto mi riguarda ho cominciato a guadagnarmi il pane e a pagarci sopra le tasse e non come quando ero uno studente di sinistra, e dopo avere sproloquiato in una qualche assemblea universitaria tornavo a casa dove mia nonna mi faceva trovare gli spaghetti pronti. Dio, come sono divenuto migliore dopo avere “tradito” i vangeli che recitavo quando ero ancora analfabeta e della storia e della vita e del dolore.
Eppure, esattamente com’è successo a Ernesto (che nel suo libro riporta pari pari gli insulti cui è stato sottoposto per il suo “revisionismo”, insulti magari pronunciati da uomini non da poco quali Giorgio Bocca o Cesare Cases), quel “tradimento” mi è stato rimproverato mille volte e ancora oggi. (Lo storico Giovanni Luna, che non è un uomo da molto, dedicò a me e a Giuliano Ferrara un suo studio sulla “fenomenologia del traditore”.)
In tanti dicono di preferire il me stesso che tornava a casa a trovare gli spaghetti pronti, a quello che sono oggi, dopo avere scritto 26 libri e mezzo. Qualche giorno fa mi ha telefonato amicalmente un signore che intendeva dirmi quanto preferisse il direttore di “Giovane critica” (quaranta e passa anni) a colui che oggi va a chiacchierare a pagamento in televisione. Era inutile gli dicessi che non c’è una parola che io pronuncio in televisione che non pronuncerei innanzi a Gesù o a un Tribunale dell’Inquisizione, e a parte il fatto che non è quello il mio lavoro connotante: non per me, comunque.
Ma dire a degli analfabeti che il tuo lavoro connotante lo scrivere dei libri è perfettamente vano. Come spiegarlo a Marcello Baraghini, che ho conosciuto mezzo secolo fa e che ricordavo con affetto, e che vedo mi qualifica su Facebook come “uno zerbino, un buffone di corte”. Dato che lui i libri li ha fatti, non sapevo che fosse analfabeta. Nulla di grave, lo prenderò a calci in culo la prossima volta che lo incontro.
Abbiamo “tradito”, sì. Per quanto riguarda Ernesto e me e alcuni altri amici, non abbiamo tradito mai la nostra coscienza. Così come non sono mai stato comunista, non sono mai stato null’altro. Mai mai mai. Né in un partito né in un salotto né in una gang socio-mondana né in una loggia massonica né in un luogo dove si facevano delle public relations. Mai. Solo l’orgoglio di poter guardare in faccia qualsiasi interlocutore e potergli significare tutto il mio disprezzo intellettuale.
Giampiero Mughini
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