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DAGOREPORT – SE C’È UNO SPIATO, C’È ANCHE UNO SPIONE: IL GOVERNO MELONI SMENTISCE DI AVER MESSO…
1 - MUSICAL MAESTRO!
Nicola Gallino per "La Repubblica"
ISABELLA ROSSELLINI CARLA FENDI PIAZZA DUOMO SPOLETO Credits Trabalza Studio
Come ponte fra i due mondi vi viene in mente qualcosa di più forte del musical? A noi no. Il musical sta alla civiltà americana come l’opera a quella europea. È la via yankee alla drammaturgia musicale. Il genere con cui gli Usa hanno scritto una storia dello spettacolo del tutto originale, parallela e indipendente dalla nostra: costellata da una scia luminosa di capolavori e forse destinata a fare ancora molta strada, mentre il nostro melodramma appare inceppato e avviato a un mesto capolinea.
Così ha fatto bene, il Festival, a dedicare ai blockbuster anni Quaranta e Cinquanta il concerto finale del 13 luglio in piazza Duomo. I decenni centrali del Novecento vedono due coppie creative contendersi i favori della ribalta: il musicista Richard Rodgers e il paroliere Oscar Hammerstein II e gli omologhi Frederick Loewe e Alan Jay Lerner, di poco più giovani.
Brand leggendari, garanzia di melodie indimenticabili. Di Rodgers & Hammerstein ascolteremo estratti da Oklahoma - con cui la ditta debutta nel 1943 -, da South Pacific (1949), The King and I( 1951), The Sound of Music (1959) e del solo Rodgers da On Your Toes ( 1936). Di Loewe & Lerner brani da My Fair Lady ( 1956), con il valzer I could have danced all night reso immortale dalla tromba di Chet Baker, e da Camelot (1960).
Sul podio il talentuoso inglese Wayne Marshall che dirige l’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, scintillante in Brahms e Mahler come in Morricone o quando va dietro a Paolo Fresu e Stefano Bollani. Stellari anche i cantanti. Il soprano di Boston June Anderson - Regina della Notte in Amadeus di Forman - e il baritono brasiliano Paulo Szot che passa con nonchalance dal Naso di Shostakovich al Tony Award del 2008 come miglior interprete di South Pacific.
E come l’opera scaturisce quattrocento anni fa dall’incontro adulterino fra musica di corte e commedia dell’arte, anche il musical nasce da un rapporto occasionale non protetto. Nel 1866 una compagnia di prosa e una di canto e ballo si ritrovano per errore al Niblo’s Garden di Broadway. Bisogna farle esibire insieme. Così il 12 settembre vien messo su lo show The Black Crook: un mostro da cinque ore che però piace e tiene 474 repliche.
Da quella sera Broadway non chiuderà più. In realtà il genoma remoto di questo mix di recitazione, canto e danza lo si rintraccia in quel teatro musicale inglese dove dialoghi in prosa e azioni coreografiche si alternano con naturalezza alle arie e agli ensemble: forme come il masque, la ballad opera e l’operetta di Gilbert & Sullivan balzate oltreoceano con le ondate di attori, guitti e fantasisti itineranti pronti a conquistare il mondo.
QUIRINO CONTI CARLA FENDI PIERO TOSI A SPOLETO
Cosa però decide il cambio di marcia è l’America. La sua industria dello spettacolo. Una macchina ad alto rendimento che innesca un circuito ultra-corto fra sistemi di produzione, pubblico e media. Del tutto nuovo e originale è l’equilibrio fra qualità musicale erede della miglior tradizione colta e un linguaggio che intercetta i più genuini umori pop. Kern, Rodgers, Gershwin, Loewe, Weill e Bernstein sono fior di musicisti, tutti geniali ebrei europei in fuga da pogrom e dittature. Un esempio.
All The Things You Are è uno standard rifatto da tutti gli dèi del jazz. Ma l’originale scritto nel 1939 da Jerome Kern e Oscar Hammerstein per il musical Very Warm for May è un sorprendente “concertato di stupore” a più voci: perfetta reincarnazione novecentesca di quelli di Rossini o Donizetti. Tanto poi chi gioca la matchball è Hollywood. La mecca che trasforma ogni titolo in un film culto e lo spedisce in giro per il mondo. Che riplasma gli interpreti in divi e le canzoni in hit planetari capaci di vivere di vita propria. E chi non ricorda Audrey Hepburn in My Fair Lady, o un altro profugo russo- il giovane Yul Brynner- che per fare The King And I si rasa il cranio per la prima volta.
Gerardo Sacco Carla Fendi e MariaPia Garavaglia
2 - FRANCA VALERI: “CHE DISASTRO I CINQUANTENNI”
Anna Bandettini per "La Repubblica"
Mancava da parecchi anni dalla scena del Festival di Spoleto e adesso Franca Valeri è allegra, piena di forza ed entusiasmo. «Sono contenta di tornarci», dice, «con questa commediola che mi ha impegnato un anno di scrittura». La commedia, un atto unico di grazia, intelligenza e ironia, è Il cambio dei cavalli, edito da Einaudi. E, indomita, l’attrice del leggendario Teatro dei Gobbi, di film cult come Parigi o cara , indimenticabile Signora Cecioni ne è anche l’interprete a 94 anni il 31 luglio, accanto a Urbano Barberini e Alice Torriani e la regia di Giuseppe Marini, dal 28 giugno al Teatro San Nicolò.
Signora Valeri cosa c’entrano i cavalli?
«Cambio di cavalli significa “sosta”. E la sosta è l’incontro tra una donna come me, di una certa età, un uomo di mezza età, figlio del suo ex amante scomparso, e una ragazza».
E si capiscono tra loro?
«Ci sono differenze incredibili e chi ha più problemi è il 40-50enne. Quella è una generazione smarrita, che non è stata capace di crearsi un appoggio, non si sente né generata dai più vecchi né interessata ai più giovani, i quali grazie all’uso dell’informatica hanno un cervello che corre veloce e se la cavano bene».
La sua simpatia a chi va?
«Alla generazione dei vecchi, naturalmente, perché conoscono l’infelicità e la sanno superare. Quanto alla ragazza, va dritta al suo scopo: vuole una posizione sociale e l’otterrà sposandosi. Invece il 50enne avrebbe voluto essere diverso, somigliare al padre, essere indipendente... ma non ce la fa, resta un sostanziale disastro. Come in fondo è nella vita vera, se ci guardiamo intorno».
Le fa ancora piacere fare teatro?
«Stare in scena è lo scopo della mia giornata. Purtroppo non posso starci tanto come una volta».
Per via dell’età?
«Ma no, perché il teatro è in condizioni peggiori della Fiat dal punto di vista economico e girare con gli spettacoli è difficile. In scena io sto benissimo. Mi hanno detto “eroica a recitare col Parkinson”, ma come posso far capire che non ce l’ho? Ho una malattia che era anche di mio padre, un tremore alla voce e alle mani: peggiora con gli anni, ma in scena si placa. Certo, faccio più fatica a muovermi, ma non devo mica scorrazzare in palcoscenico. E dove non arriva la tecnica, mi creda, arriva la passione».
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