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Beppe Di Corrado per "Il Foglio"
Sì, la sconfitta. Embè? Non facciamo i soliti, quelli del loro più pronti, quelli che la Spagna sì che sa valorizzare i suoi giovani e noi no. Giustifichiamo senza spiegare e poi senza capire. Perché non cambierà . L'Italia Under 21 perde la finale di un Europeo che molti neanche sapevano si giocasse. Piangono e si capisce: Verratti, Insigne, Borini, Gabbiadini, l'allenatore Devis Mangia.
Forti e piccoli, davanti a qualche milione di spettatori che improvvisamente ha scoperto la loro esistenza. Perché l'Under 21 è come un testamento di uno zio che non ti ricordavi di avere. Sta lì, gioca tutto l'anno: Rieti, L'Aquila, Biella, Casarano, stadi piccoli, città di provincia, tutti felici di vedere una nazionale che non è la Nazionale. Poi c'è un momento in cui gli altri, tutti gli altri, la scoprono. Il testamento, appunto. Un patrimonio sconosciuto che secondo qualcuno compare per miracolo. E questo? L'Italia trova un pezzo di sé che per molto tempo considera altro da sé: l'Under è la dimostrazione plastica che non è vero che questo paese non ha futuro.
C'e l'ha, ma a volte non sa di averlo. Poi lo svela e tutti cominciano lo stesso ritornello: "Crediamo nei giovani, facciamoli giocare di più". E' solo un pezzo di verità , diciamocelo. Perché club, presidenti, dirigenti e allenatori siamo noi. Gli stessi che non riconoscono ai giovani il diritto di lavorare e fare carriera. Siamo i teorici (e i pratici) della teoria dell'esperienza meglio dell'entusiasmo, però pretendiamo che nel pallone l'Italia sia diversa. Ma diversa da che? Diversa da chi?
L'Under è sempre stata così, la Nazionale di una nicchia che l'ha coccolata nel disinteresse della massa, travolta dal giovanilismo soltanto a ridosso delle semifinali e delle finali dei vari europei che abbiamo più o meno dominato negli ultimi trent'anni. Chiedete a un ragazzino se conosce o no le formazioni dell'Under dagli fine degli anni Ottanta in poi. Comincerà con la squadra di Vicini, quella di Zenga, di Ferri, di Cravero, di Matteoli, di Giannini, di Donadoni, di Vialli, di Mancini, di Paolo Maldini in panchina.
La generazione del pubblico attualmente under 40 se la ricorda, così come ricorda le altre: la prima di Cesare Maldini (1992) con Dino Baggio, Corini, Albertini. La seconda di Maldini (1994), con Toldo, Cannavaro, Panucci, Inzaghi. La terza di Maldini (1996), ancora con Cannavaro, Nesta, Tommasi, Tacchinardi, Totti. Quel decennio ha creato la mitologia di nicchia, un ossimoro che ha funzionato. L'Under era amata dai giovani perché era un sogno più accessibile della nazionale maggiore. Il paradosso è che la fortuna della piccola Italia è stata quella che oggi per molti è la sua dannazione: la possibilità di arrivarci anche giocando in B, anche senza essere titolare in campionato.
L'accessibilità presunta ha alimentato il seguito piccolo, ma costante, lo zoccolo duro di appassionati e amanti che non aspettavano gli ultimi due turni dell'Europei per sentirsi italiani guardando la "partita dei ragazzini". Se volete, o anche se non volete, la coincidenza con la trasmissione di Holly & Benji è stata fondamentale: l'Under era la Nazionale di quella generazione di italiani, quella troppo piccola per godersi il Mondiale dell'82 e che ha aspettato 24 anni per avere un'altra coppa del mondo. Nel mezzo, ha vinto soltanto l'Under.
Dopo l'epopea di Maldini, il gruppo di Tardelli: Abbiati, Gattuso, Baronio, Pirlo, Ventola. Per chi se lo ricorda, quella fu la squadra che anticipò proprio la vittoria del Mondiale del 2006. Fu in un giorno del 1999, a Taranto: vinse 2-1 contro la Francia allenata da Raymond Domenech. Di fronte c'erano Silvestre, Henry, Sagnol, Gallas. Il gol decisivo lo segnò Pirlo al quinto del secondo tempo supplementare. Su punizione.
Regalò all'Italia la qualificazione alle Olimpiadi di Sydney. Da allora (e non dalla finale di Berlino), Domenech ci odia. L'Under ha allevato giocatori che non ce l'hanno fatta, ma la retorica della meteora attacca fino a un certo punto. Vale pure per le Nazionali maggiori, solo che nessuno si diverte a farlo notare. La quota degli under che vincono da giovani e spariscono è fisiologica e ponderata.
E' bella la storia di Del Nero, vincitore dell'Europeo 2004 e poi scomparso nei meandri della mediocrità pallonara. Però in quella squadra, allenata da Gentile, c'erano Amelia, Barzagli, De Rossi, Zaccardo, Gilardino, tutti giocatori che due anni dopo avrebbero vinto la coppa dei grandi in Germania. L'anno prossimo c'è il mondiale del Brasile, qualcuno dirà che se vogliamo crescere i nostri ragazzi bisogna farli giocare di più in campionato, nelle coppe, nelle squadre insomma. Tutto vero e tutto falso. Sono trent'anni che i ragazzi crescono da soli. Lasciamoli in pace.
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