COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Marco Giusti per Dagospia
Ero pazzo di Françoise Hardy. Eravamo tutti pazzi di Françoise Hardy. Solo sentirla cantare con un filo di voce alla chitarra “Tous les garçons et les filles de mon age”, che da noi era diventata “Quelli della mia età”, 250 mila copie vendute in Italia, e non c’è ragazzino o ragazzina del tempo che non la sapesse a mente, ci faceva impazzire. Era vera. Si apriva un mondo. Un mondo di canzoni yé-yé, di cultura pop, di Nouvelle Vague, di Cahiers, di grande moda mischiata al golf troppo grande trovato sul letto. Di lei erano pazzi i Beatles, David Bowie, Mick Jagger e Bob Dylan, che le dedicò un poema sulla copertina di “Another Side of Bob Dylan” e si rifiutò di cantare all'Olympia se Françoise Hardy non fosse venuta nel suo camerino durante l'intervallo.
bob dylan e francoise hardy nel 1966
Si incontrarono nel 1966, ma lui non parlava francese e lei non parlava inglese. “Non avevo alcun interesse per lui come uomo, solo come artista. Mi portò nella sua camera d'albergo dopo avermi invitato ad uno show a Parigi, e mi fece ascoltare due brani che non aveva ancora pubblicato, 'I Want You' e 'Just Like a Woman”. Poi arriveranno I Blur. Non a caso quando Bernardo Bertolucci nel 2003 ci riporta con “The Dreamers” agli anni della nostra gioventù, recupera “Tous les garcons et les filles de mon age”. In francese, certo. In italiano sarebbe stato un po’ cheap.
E dopo di lui arriveranno, un po’ derivativo, il Wes Anderson di “Moonrise Kingdom” e il più originale François Ozon di “Giovane e bella”. Quando Diana Vreeland, direttore di Vogue la scopre nel 1963 ce la presenta come la nuova ragazza della moda. “Sta facendo scena perché è giovane, ha verve, ha una bella collezione di avventure nella moda, indossa quello che vuole indossare, ama quello che indossa. Françoise Hardy è il simbolo di Vogue per la nouvella vague della moda americana, francese, internazionale”.
Virtuamente, scrive ancora la Vreeland, è una cantante diciottenne sconosciuta fino a quando è apparsa per tre minuti in tv, vestita con una tela cerata e muovendo solo le mani per cantare “Tout les garçons et les fille de mon age”, che vende 65 mila dischi in due settimane (poi diventeranno un milione e mezzo in sette mesi). A questo punto Vogue la punta e diventa una star internazionale. I ragazzi sono stanchi di B.B. e delle gattine del cinema. Da Françoise Hardy, sempre triste, che scrive e canta le sue canzoni, che vive con la mamma e la sorella in un appartamento di tre stanze a Montnmartre e studia alla Sorbona, nasce qualcosa di profondamente nuovo.
sami frey francoise hardy une balle au coeur
Perfino il Partito Cominista francese usa il titolo della sua canzone per farci un magazine per teeneagers, “Tous les garçons e les filles”. “Il successo mi piace, perché mi permette di fare la cosa che mi piace di più, cantare”. Per gli americani è una divinità. Joan Barthel sul New York Times scrive: “E’ così oggi, così stivali bianchi e yé-yé, che puà far sentire tutti quelli sopra i 25 (me compresa) dei trigloditi, vestiti di pelliccia…”. Eppure in Italia, tra il 1963 e il 64, gli anni del maggiore successo di “Quelli della mia età”, secondo posto in classifica dietro “Cuore” di Rita Pavone, non avevamo visto praticamente nulla di lei a parte le apparizioni alla tv italiana o, forse, i due proto video della canzone, quello in bianco e nero passato in tv e lo Scopitone a colori diretto da Claude Lelouch.
francoise hardy in ciao pussycat
Ma l’amore, come già era accaduto ai francesi e come accadrà a inglesi, tedeschi, americani, fu immediato. Devo dire che non avevamo neanche visto il suo primo film da attrice con Roger Vadim nel 1963, “Un château en Suède”, che avrebbe dovuto lanciarla. Nè “Ciao, Pussycat”, 1964, o “Masculin-Feminin” di Jean-Luc Godard, dove indossa i suoi celebri stivali bianchi, né il bellissimo film girato in Grecia da Jean-Daniel Pollet, “Une balle au coeur” con Sami Frey e Jenny Karezi, che da noi arriverà solo nel 1972 col titolo “Resa dei conti per un pezzo da 90” e che recuperai in un cinemino di Napoli quando già faceva l’università.
antonio sabato e francoise hardy in grand prix
A quel tempo, per me, Françoise Hardy era poco più di un ricordo. Eppure quando la vidi nel 1966, sempre bellissima, in “Grand Prix” di John Franknheimer, a fianco di Antonio Sabato, mi sembrò come un personaggio del passato. In effetti tra il 1963 e il 1966 era passato di tutto. Fellini, Visconti, Pasolini, Bertolucci, Bellocchio. Oltre alla Nouvelle Vague. Certo. Leggo che Françoise Hardy, idolo della musica e degli stilisti, da Yves Saint-Laurent a Paco Rabanne, anti-diva cresciuta in collegio, figlia illegittima di un ricco borghese che manteneva a stento la madre e la sorella minore, non voleva fare cinema.
“Non posso credere alle offerte di registi famosi che rifiutai. Tuttavia preferivo di gran lunga la musica al cinema. La musica e le canzoni ti permettono di approfondire te stesso e i tuoi sentimenti, mentre il cinema riguarda il recitare una parte, interpretare un personaggio che potrebbe essere a chilometri di distanza da quello che sei." Accetta il ruolo di Ophelia in “Un chateau en Suede” di Roger Vadim, a fianco di Jean-Claude Brialy, Monica Vitti, Jean-Louis Trintignant. Per vedere se può reggere il ruolo, Vadim le prepara un reading di lettere d’amore di Cécile de Roggendorf a Giacomo Casanova per Radio Europe n° 1. Sul set si annoia.
Non le piace il cinema. Ma fa la sua figura presentando il film a Cannes vestita da Pierre Cardin. Non le va tanto meglio né in “Ciao, Pussycat” di Clive Donner, dove ha un ruolo minimo né in “Une balle au cœur” di Jean-Daniel Pollet, uno dei fondatori della Nouvelle Vague, grande documentarista, che lei bolla come “un pessimo regista” e bolla il suo film come “un disastro”. Viene in Italia e appare in una serie di musicarelli che non mi ricordo più. Non sono ruoli, sono piccole apparizioni. “I ragazzi dell'Hully Gully”, “Questo pazzo, pazzo mondo della canzone”, “Altissima pressione”, “Europa canta”.
Accetta il ruolo, pagatissimo, di Lisa in “Grand Prix” di John Frankenheimer, accetta una partecipazione in “Masculin-Feminin” di Jean-Luc Godard vestita da André Courrèges. Ma va detto che né i suoi registi né lei la prendono sul serio come una vera attrice. Sono apparizioni da popstar del momento, omaggi, citazioni. La ritroviamo in altri film, nel televisivo “L'homme qui venait du Cher” con Eddy Mitchell nel 1969, “Les Colombes” di Jean-Claude Lord nel 1972, in “Si c'était à refaire” di Claude Lelouch nel 1976. Film che non aggiungono molto al suo mito, ma che la congelano in quel preciso momento del suo maggiore successo.
Leggo che aveva un tumore da vent’anni e da anni combatteva per l’eutanasia, che non poteva fare in Francia. Credo di non ricordarla da vecchia, coi capelli bianchi, come appare su qualche rara foto stamane, ma neanche assieme a suo marito, sposato nel 1981 e lasciato nel 1986, Jacques Dutronc. Françoise Hardy è rimasta, per me, ma forse non solo per me, la ragazza di “Quelli della mia età”, “E’ l’amore che conta”, “L’età dell’amore”. Meglio non guardarsi allo specchio.
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