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Alberto Riva per “Il Venerdì - la Repubblica”
«Dino Buzzati era circondato da un alone noir, arrivava in casa editrice con un mantello nero dall' interno foderato di rosso. Piero Chiara girava con una piccola pistola in tasca. Giovanni Arpino sempre scontento, la faccia scura.
Guido Piovene, "il Conte", metteva soggezione, freddo, un' aria ambigua. Mario Tobino invece simpaticissimo, quando lo chiamavo a Maggiano non sapevo mai se lo avrei trovato sobrio». E ancora: «Fruttero & Lucentini sostenevano che in una pagina non ci deve essere due volte la stessa parola, lo stesso aggettivo: ecco il segreto del successo. Sciascia non era quel personaggio austero che si racconta, anzi, veniva a trovare Domenico Porzio e parlava per ore. A casa di Porzio poi conobbi Borges e secondo me non era cieco».
Titolo immaginario: Il Parazzoli. Storia della letteratura italiana vista da chi l' ha scorrazzata in giro. Purtroppo questo libro non esiste (o non ancora, chissà) ma esiste l' autore: Ferruccio Parazzoli, classe 1935, romano innestato a Milano dai tardi anni 50, autore di saggi e romanzi, l' ultimo, Il rito del saluto, appena uscito per Bompiani (pp. 296, euro 18).
Parazzoli è stato ufficio stampa di Mondadori dal 1960 al 1984, poi direttore degli Oscar fino al 1992, quindi consulente fino a due anni fa: tradotto, sono cinquanta e rotti anni di editoria vista dalla sala macchine. Da quando, con una telefonata, il poeta Vittorio Sereni, allora direttore editoriale, lo assunse: «Mi mandarono a Il Saggiatore, all' epoca sigla interna alla Mondadori, ma dopo un anno mi spostarono da basso, in un ufficio dove trovai Franco Loi che batteva le sue poesie su una grossa macchina nera. Eravamo in Via Bianca di Savoia». Storica sede dove, racconta Parazzoli, la presenza di Mondadori era annunciata da una bandiera sull' ingresso. «Era il portiere, Eusebio, a issarla quando Arnoldo era presente.
Lui arrivava in macchina e saliva in ascensore insieme agli impiegati, anzi, ci teveva che prendessimo l' ascensore, guai a perdere tempo! Suonava una campana a inizio e a fine giornata e più di una volta vidi Mondadori passare a spegnere le luci nei corridoi».
E i corridoi non erano tutti uguali: «Al primo piano c' era quello con la passatoia rossa» rievoca Parazzoli: «dove c' erano gli uffici di Arnoldo, di suo figlio Alberto, che dirigeva di fatto la casa editrice, di Sereni e Elio Vittorini, che non aveva un incarico ufficiale, infatti lavorava anche per Einaudi. Insomma era un santuario: c' erano passati Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Thomas Mann. Io conobbi la sua traduttrice, Lavinia Mazzucchetti, che arrivava trasandatissima con le calze alle caviglie e parlava malissimo di Hermann Hesse, diceva: quel falso buddista che fa gli acquarelli nella villa in Svizzera!».
Oggi gli uffici stampa si destreggiano tra tsunami di mail e social network, ma allora come funzionava? Parazzoli alza le spalle: «Si stava molto al telefono, ma i critici che contavano erano pochi: Nascimbeni, Vigorelli, Pampaloni. Un elzeviro di Carlo Bo sul Corriere faceva il successo di un libro: c' era una borghesia, colta, solida, che non solo leggeva ma considerava gli scrittori come fari nel buio: un pezzo di Testori, Parise, o Pasolini era legge».
KEROUAC SULLA STRADA DATTILOSCRITTO ORIGINALE
Celebrità con le loro insospettabili manie da star: «Una volta dovetti accompagnare Mario Soldati a trovare un cappello perché aveva freddo. Energico, ruspante, vivacissimo, mise sottosopra vari negozi senza comprare nulla. Per non parlare di quando andiamo a cena con Gianni Brera, due super intenditori, e comincia la gara: quando arriva un piatto ordinato da Soldati, ecco la critica di Brera. E poi Soldati che annusava tutti i tappi dei vini e rimandava indietro.
Uno strazio, lo chef distrutto, ma c' erano anche situazioni più rilassanti». Tipo? «Ungaretti era molto cordiale, sebbene fosse celeberrimo, in strada lo riconoscevano. Quando Vittorini stava morendo, volle essere accompagnato a trovarlo in clinica. Lo andai a prendere all' hotel con la mia Fiat 1100 crema e pistacchio e volle sedersi davanti con me. Nella stanza di Vittorini però entrò da solo». L' autore di Il garofano rosso non aveva fama di uomo facile; chiedo conferma a Parazzoli. «Vittorini non dava molta confidenza. Gli feci leggere il mio primo romanzo e lui mi rispose con una lettera: teniamo conto che lavoravamo sullo stesso piano». Abbastanza eloquente.
Dicono che fosse piuttosto formale pure Georges Simenon, altro cavallo di razza nella scuderia Mondadori di allora: «Lo ricordo con il cappotto di cammello, serissimo, volle una dama di compagnia per la moglie Denise. Non voleva sentir parlare di Maigret, contavano solo gli altri romanzi che però a quel tempo erano snobbatissimi. E non poteva soffrire il colore verde, così feci sparire asciugamani, portaceneri, qualsiasi cosa verde: ma alla cena ufficiale a un certo punto vedo entrare queste enormi insalate! Ho deviato i camerieri per un soffio».
E Graham Greene? Caratteraccio pure lui, dicono: «Non lo vidi mai, ma avevo sbagliato io: organizzammo un tour e gli dissi che avevo previsto una cena con i dieci migliori critici italiani. Ci torna un telegramma lapidario: "Non c' è niente che possa sconcertarmi di più che una cena con dieci critici!". E non venne».
Jack Kerouac invece venne. Parazzoli rivela: «Aveva bisogno di soldi. Usciva Big Sur, cinquecentesimo titolo della collana Medusa. Lo vado a prendere a Linate ma da Londra mi telegrafano che lo hanno spinto a forza sull' aereo, era completamente ubriaco. Nell' auto si addormenta e in hotel chiamo un dottore che vuole fargli un' iniezione: lui si sveglia e comincia a gridare: "me mata, me mata!".
Allora chiamo Fernanda Pivano che arriva di corsa: altro che siringa, dice, qui bisogna farlo bere! Ordino champagne e lui comincia a traccannare direttamente nel bicchiere del bagno. Si è addormentato anche in conferenza stampa, mentre i giornalisti gli chiedevano: lei ama San Francesco? Ama Buddha? Kerouac per la nostra generazione è stato un mito, una leggenda vivente».
Parazzoli per un attimo si perde nei ricordi. Cosa è cambiato da allora? «Avevamo paura di Arnoldo: se per caso un libro cadeva per terra era una tragedia: lui sapeva la fatica che gli era costata trasformare quel libro non in un oggetto, bensì in un valore. Oggi lo scrittore non vale più nulla, se non fa spettacolo non esiste. È la dittatura del mercato, ma gli editori dovranno uscirne». Come? «Smetterla di puntare di volta in volta sull' autore giovane, sul caso, uscire da questa ipnosi del bestseller. Ai miei tempi esisteva il libro di successo, che è una cosa diversa. Comunque...».
Parazzoli si guarda intorno, circondato dai novemila volumi della sua biblioteca, dagli "amici", come li chiama lui, che tiene sugli scaffali con la copertina che ti fissa negli occhi. «... comunque quella dello scrittore è una strada difficile, con il tempo si perdono i pezzi.
Qualcuno si ricorda per caso di Giovanna Manzini, Alessandro Bonsanti, o Giuseppe Bonaviri? Be', si parlava sempre di lui per il Nobel, eppure a un certo punto Mondadori smise di pubblicarlo, lui ne soffrì terribilmente».
Come il protagonista di tutti gli ultimi romanzi di Parazzoli, "lo scrittore", che in quest' ultimo episodio invece di scrivere, a mezzanotte esce sotto la pioggia e va nel kebab di via Padova, il Nilo Blu, perché non sa cos' altro fare. «Certo» annuisce lui sornione, «e lì incontra tutti i suoi personaggi ormai disoccupati che lo rimproverano perché non scrive più storie per loro». Amen.
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