
DAGOREPORT – IL GOVERNO RECAPITA UN BEL MESSAGGIO A UNICREDIT: LA VALUTAZIONE DELL’INSOSTENIBILE…
Marco Cicala per "il Venerdì di Repubblica"
Il primo a venire fucilato è Woody Allen: «Mi ripugna fisicamente» confessa OW. «Detesto gli uomini fatti in quel modo. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza mi dà l’orticaria. È arrogante all’ennesima potenza, come tutti gli insicuri. Quelli che in compagnia si raggrinziscono e parlano piano sono incredibilmente arroganti. Fa il timido, ma non lo è». Tempo poche righe, il bilancio della carneficina si aggrava: fuoco su Marlon Brando («Sembra un salsiccione. Una scarpa fatta di carne»), su Laurence Olivier («È un beota. Sul serio»). Il tiro al piccione è solo all’inizio.
Chaplin? «Per molti aspetti, profondamente cretino». Humphrey Bogart? «Un vigliacco, e non sapeva picchiare. Un altoborghese che cercava di fare il duro». Van Johnson? «Fa pietà. Di solito gli uomini diventano più belli, invecchiando. Lui è quel tipo di checca che non migliora». Elia Kazan: «Ha la faccia che si merita. Una faccia che si va trasformando in un rostro. Sì, un rostro, è proprio un rostro». Hitchcock? «Pigro e megalomane. Si addormentava mentre uno gli parlava». John Landis: «Pezzo di merda fatto e finito».
A PRANZO CON ORSON WELLES HENRY JAGLOM
Non le manda a dire, Orson Welles. Stende mezza Hollywood con mira da cecchino. Sebbene, nel suo caso, l’arma letale ricordi meno una carabina di precisione che una di quelle cerbottane con aculei al curaro in uso presso gli indigeni dell’Orinoco. Perché il vecchio Orsy uccide col respiro, un soffio vitale che si condensa in storielle sboccate, aforismi omicidi, stroncature fisiognomiche esatte come una caricatura di Hogarth o di Daumier. E – occhio – non si tratta di sentenze apocrife, avvolte nella tenebrosa leggenda wellesiana. No: It’s All True, è tutto vero, inciso parola per parola su nastro durante tre anni di pranzi a un tavolo riservato del Ma Maison, sciccoso ristorante di West Hollywood.
A raccogliere gli ultimi fuochi dell’Orson-pensiero, tra due capesante e un’insalata di granchio, fu il benemerito Henry Jaglom, regista, attore e sfegatato cultore di Welles, al punto da farsene scriba fedele. Dal 1978, i due si incontrarono nel locale una volta a settimana e perfino più spesso. Nell’83, Laglom chiede al commensale il permesso di registrare le chiacchierate. OW acconsente. Unica condizione, che il magnetofono resti nascosto ai suoi occhi.
Orson Welles con sua figlia Chris Welles
L’intervistatore lo lascerà acceso in una borsa sotto al tavolo. Sbobinati, quei nastri sono diventati A pranzo con Orson che, insieme alle conversazioni con Peter Bogdanovich e alla biografia di Barbara Leaming, merita il podio della bibliografia wellesiana. Ma – aiutato dalla ispiratissima traduzione di Mariagrazia Gini – è un libro infinitamente più divertente degli altri due.
Arriva in Italia nell’anno del doppio anniversario orsoniano: un secolo dalla nascita, trent’anni dalla morte. A Welles sarebbe piaciuto crepare da solo in una camera d’hotel («Ti schianti e via, come usava una volta»), ma il desiderio fu esaudito solo in parte: il 10 ottobre del 1985, lo ritrovarono in casa abbracciato alla macchina da scrivere, ucciso da un infarto e senza nessuno intorno.
Solitario y final, il Welles dei discorsi a tavola è un grande obeso di quasi settant’anni. Ne dimostra di più. Torturato da diete, acciacchi, depressione, buffi, fisco, i soliti progetti di film che non riescono a decollare, assomiglia a uno di quegli struggenti cattivacci che ha tante volte interpretato sullo schermo: da Citizen Kane all’infernale Quinlan, dall’Harry Lime del Terzo uomo a Mr. Arkadin, dal Charles Clay di Storia immortale al Will Varner della Lunga estate calda. Ringhia, sghignazza, si cruccia, si immalinconisce, s’incazza, esplode in risate che sembrano sgorgate dall’intestino della Terra.
Non si considera un fallito, ma avrebbe voluto fare pellicole popolari («Se un film non è un successo commerciale vuol dire che ha qualcosa che non va») e non c’è riuscito. È rimasto nella riserva delle sale d’essai. Anni dopo Quarto potere, la gente ancora gli gridava dietro: «Ehi! Che diavolo voleva dire?». Sognava l’epica, ma fu essenzialmente un poeta. Diceva che l’arte deve essere vitale e positiva, per poi ammettere: «Io sono maledettamente cupo».
Riteneva che, a meno di non reinventarsi, il cinema fosse ormai destinato a una vita puramente apparente, inerziale: «È stato fatto tutto, sino all’esaurimento. Lo si potrà fare ancora meglio, ma la grammatica sarà sempre la stessa. Finché non romperemo completamente, non faremo che aggiungere titoli a quelli che già ci sono».
chaplin prese in sposa la sedicenne lita grey
Un padre inventore, una madre musicista, campionessa di tiro e suffragetta, Welles aveva cominciato da piccolissimo sfilando in parate pubblicitarie vestito da leprotto. Subito regista, attore, poi sceneggiatore, produttore, costumista, scenografo, lucista... Senza contare il teatro, la radio, gli spot, l’illusionismo in cui era bravissimo e nel quale riconosceva l’anima magico-arcaica di ogni vero film.
La mamma di Chaplin fu portata in manicomio
A 68 anni, Orson è uno che ha fatto tutto. Maneggia gli ingranaggi dello spettacolo come un vecchio orologiaio. Non è un patriarca del cinema: è il cinema. Per questo può permettersi di ripassarne a contropelo apoteosi e declino tranciando giudizi – discutibili finché volete, ma travolgenti – con l’autorità di un giudice monocratico.
Circondato da una fosca reputazione, un po’ giustificata e un po’ no, che lo dipinge come un cubitale piantagrane, un genio volubile ormai incapace di concludere un film, Welles invecchia ruminando veleni, recriminazioni, paranoie. Ma non si consegna totalmente alla perfidia. Nel libro spende parole ammirate per John Ford, Buster Keaton, Erich von Stroheim, Howard Hawks, Frank Capra, La Grande illusione di Renoir, Alida Valli, Michael Caine e Gary Cooper.
Per anni ha duellato con l’Idra hollywoodiana che in montaggio gli ha massacrato capolavori come L’orgoglio degli Amberson, La signora di Shanghai o Quinlan. Pur di continuare a far film, è diventato uno sradicato globetrotter, scucendo quattrini ai finanziatori più astrusi e girando in condizioni temerarie. Eppure l’OW al crepuscolo rimpiange i vecchi tempi. Nostalgico di un capitalismo primigenio che ancora flirtava con l’avventura, nell’asettica New Hollywood lui non si raccapezza.
Sa bene che gli Studios non sono mai stati un’impresa filantropica, ma l’antica e sanguigna rapacità commerciale gli appare ormai scolorata in una gigantesca macchina contabile, managerializzata, impersonale, dove i film si devono vendere ancora prima di venire inventati. Dove il contratto «è la nuova, grande forma d’arte». Certo, i vecchi tycoon erano un branco di tirannici bucanieri, però «era più facile trattare con loro che con questa gente di oggi, uscita dal college, sempre con il mercato in testa. È lì che vanno a finire le energie di tutti».
È lì che svapora la gaia scienza imprenditoriale della Hollywood d’antan.
Intellettuale allergico all’intellettualismo, Orson detesta i cineasti-cinéphiles: «Quelli che oggi vogliono fare i registi senza mai aver avuto un’esperienza di vita. Senza aver mai conosciuto da vicino nessuna cultura che non sia quella cinematografica». Per Welles l’opera è tutto. Chi l’ha realizzata, quasi niente. Per questo adora scrittori dalle biografie sepolte come Shakespeare o Cervantes.
E per questo odia il concetto di regista-auteur, torbido stratagemma per esibire in immagini complessi e tormentucci privati: «Mettiamola così: non mi dà fastidio vedere l’artista nudo, ma detesto vederlo mentre si spoglia. Se vuoi farmi vedere l’uccello, va benissimo. Ma non fare lo strip». Però demolisce pure Il Padrino di Coppola – cineasta titanico per molti versi a lui affine – perché glorifica una mafia totalmente taroccata: «È l’esaltazione di una banda di straccioni che non è mai esistita». Quelli di Cosa Nostra? «Bifolchi. Gente che al massimo potrebbe guidare un camion. Il gangster di classe fu un’invenzione di Hollywood. Il codice d’onore e altre boiate... Tutta roba inventata di sana pianta».
Mai ingaggerebbe in un film Hoffman, Pacino o De Niro: «Niente nani etnici. Non voglio gente scura con la faccia strana». Hai un concetto di americano che è anni 50, veramente merdoso! insorge l’amico Jaglom. Orson sogghigna. Come il gatto del Cheshire. E sfruculiando la correctness dell’interlocutore, che lui chiama «il mio grillo parlante ebreo», si traveste da razzista: «Sai, io non credo all’uguaglianza tra i popoli. Sono profondamente convinto che sia una menzogna bella e buona»; «Non si è umani se non si riconosce di avere qualche pregiudizio»; «I sardi hanno dita corte e tozze. I bosniaci sono senza collo. Misurali. Misurali e vedrai».
Quella del collo è un’altra esilarante fissazione wellesiana: Brando ha un collo da insaccato; Liz Taylor è «ormai senza collo, le orecchie le toccano le spalle»; ma lo stesso OW si vede su una pericolosa china di rattrappimento senile: «Una volta ero un metro e novantuno, adesso sono sull’uno e ottantotto. Continuo a perdere collo». Ha anche sviluppato una fobica antipatia verso le persone basse: «Un dittatore alto non è mai esistito. Mai. Fammi un nome. Sono tutti al di sotto del normale. Sono i tappi che hanno manie di grandezza».
In piena emergenza Aids non vuole più abbracciare né baciare nessuno: «Non sono arrivato alla mia età per farmi accoppare dalla peste gay». Maschere. Pose. Condite da aneddoti pirotecnici. Tipo quello del regista Michael Curtiz che sul set di Casablanca ordina: «Ora tutti i bianchi di qua, tutti i negri di là». Qualcuno gli sussura: «Mr. Curtiz... Si dice di colore». E lui: «Benissimo: tutti i negri di colore di là». Per non parlare di Laurence Olivier.
Una volta Welles lo becca in camerino in pieno delirio narcisistico davanti allo specchio: «Era imbarazzato perché l’avevo sorpreso in un momento così intimo. Mi disse che era così innamorato della sua immagine che gli veniva una gran voglia di succhiarsi l’uccello. Quello era il suo grande rimpianto, disse: non poterselo succhiare».
Le discussioni scorrazzano dalla politica Usa («Gli Stati Uniti non hanno mai perso un’opportunità, non solo durante l’amministrazione Reagan ma in tutta la mia vita, per impedirsi di essere qualcosa di diverso dai nemici giurati degli arabi e, ovviamente, dei latinoamericani. Non riusciremo mai a ripulire questa immagine, a nessun prezzo») all’imbruttimento di Parigi («Tutti dicevano: Vedrete che il Pompidou vi piacerà moltissimo.
È questione di abitudine. Ma più lo si guarda, più è impossibile. È un cesso»); dalla convinzione che Mussolini abbia copiato il saluto romano dai kolossal di Cecil B. DeMille alla teoria secondo cui, invecchiando, certi uomini finiscono inesorabilmente per assomigliare alle loro mamme ebree. Non solo Norman Mailer, ma anche Leonard Bernstein «è sempre più come sua madre. Questi ultimi due anni sono stati spietati. Ora si è fatto un taglio sbarazzino, cercando di somigliarle meno». Ma non ha funzionato. «Adesso sembra Gertrude Stein».
Al tavolo di Welles vediamo avvicinarsi Richard Burton, Jack Lemmon o Zsa Zsa Gabor. Chiedono udienza. Orson gliela concede oppure no. Pranza tenendo in braccio il barboncino Kiki. Che a un certo punto sgancia un peto formidabile. «Non siamo stati noi. È stato il cane. Ci tengo che lei lo sappia» precisa Jaglom al cameriere. E Welles: «Non ci porti i dessert per almeno due minuti».
I turbolenti rapporti con le donne sono rievocati tra autoironia e toni da vecchio tough guy: «Me le facevo tutte»; ma dice anche: «Adesso voglio scrivere una smentita della reputazione di grande amatore. Parlerò di tutti i miei insuccessi». Commovente e impietoso il ricordo dell’ultima notte con Rita Hayworth, seconda signora Welles che divorziò da lui essendone cornificata a manetta: «Certo che l’amavo, e molto» racconta OW, «ma ormai non sessualmente. Dovevo metterci tutto l’impegno per scoparla». Infelice Rita: «Era diventata un’icona del desiderio, e voleva soltanto essere una casalinga».
Un giorno, mentre Orson è a Roma dove sta lavorando al film Otello, lei gli telefona da Antibes per un disperato tentativo di ricucire: «Vieni da me stasera». Welles parte: « Siccome non trovai posto sull’aereo di linea viaggiai su un cargo, in piedi, in mezzo ai pacchi. Arrivai all’hotel. Andai su nell’unica grande suite. Lei venne ad aprire la porta in négligé, con i capelli sciolti, fantastica. C’erano fiori dappertutto. Le finestre davano sulla terrazza davanti al Mediterraneo.
Jack Lemmon Joan Collins e Robert Wagner
Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime e disse: Avevi ragione tu; siamo fatti l’uno per l’altra; ho sbagliato. Ma ormai ero pazzo di un cessetto di italiana che mi tirava scemo, e dovevo tornare da lei a tutti i costi. Mi toccò spiegarlo a Rita. Lei si mise a piangere e con un filo di voce mi disse: Va bene. Allora rimani con me solo stanotte; tienimi stretta mentre dormo. Così la tenni stretta. E nient’altro. Mi si addormentava il braccio. Controllavo l’orologio con l’angolo dell’occhio per vedere se sarei riuscito a tornare a Roma con il volo del mattino».
sidney poitier tony curtis sammy davis jr jack lemmon
Magari scottato da una madre virago che morì giovane e parsimoniosa in affetto, Orson si abbandona a riflessioni sul filo della misoginia: «Il senso di colpa è un’invenzione puramente maschile. Nessuna femmina ce l’ha. Per questo la Bibbia è così azzeccata». Le donne «sono un’altra razza». Con loro «puoi uscire vincitore solo se sei il placido centro del loro essere. Devi rappresentare solidità e affetto. Devi essere un’àncora. Anche se non lo sei. Non puoi dire la verità. Devi mentire e fingere».
Di Welles, Peter Bogdanovich ha scritto che era un uomo troppo coraggioso e insieme pericolosamente vulnerabile. Cocteau lo definì un gigante dallo sguardo infantile, un indolente iperattivo, una solitudine circondata di gente, uno studente che si addormenta in classe.
elizabeth taylor e richard burton a londra 1972
Alla fine della sua vita OW confessava senza perbenismi puritani: «Non ho nemmeno di che pagare la spesa al supermarket». Per questo, e molto altro, erano forse nel giusto quei birichini che ai tempi del liceo beccavi a scarabocchiare una doppia vu doppia sui muri del cineforum: WW. Nel senso di Viva Welles.
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