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Massimiliano Panarari per “la Stampa”
Dopo la declinazione sperimental-rivoluzionaria di Fabio Fazio, il Festival della canzone italiana in versione Carlo Conti scommette (con i dati di ascolto iniziali che gli danno ampiamente ragione) sulla formula iperpop e dalla parte della «common people», scegliendo di abolire la politica (a parte qualche spruzzata di comicità un po’ qualunquista) e di risintonizzarsi sulla tradizione.
Il Sanremo n. 65 «controriformista» e del rappel-à-l’ordre cala così, naturalmente, anche la carta della nostalgia (forse canaglia, di certo allettante) che per l’immaginario di questo Paese coincide ormai, in maniera definitiva, con il ritorno a una Belle époque ed età dell’oro molto tardonovecentesca e postmoderna. E cioè gli anni Ottanta pre-Tangentopoli e Mani pulite, quelli del disimpegno e dell’economia che andava a gonfie vele (anche se gli economisti potrebbero avanzare svariate precisazioni a proposito della traiettoria ascendente del debito pubblico...).
E pure dell’edonismo, «albaniano» più che reaganiano: non per nulla, sul palco dell’Ariston è salito un duo iconico dell’Italia (che fu) allegra e spensierata, Al Bano e Romina, di nuovo insieme per la gioia del pubblico e dello share (che ha toccato il picco quando hanno intonato Felicità).
Tesi largamente sostenuta quella del festivalone specchio della nostra società (da ultimo la ribadisce lo storico Leonardo Campus nel suo Non solo canzonette, edito da Mondadori-Le Monnier). Ma qui c’è un caso specialissimo di allegoria esemplare, e in tutto e per tutto, della parabola della nazione, a cui le vicende familiari dei due aderiscono come carta carbone (anch’essa molto Anni 80, quando non c’era lo scanner...), in una singolare coincidenza di esistenza privata e vita pubblica.
Il miracolo italiano combinato al sogno americano, l’ascesa e il trionfo di una coppia, composta da un ragazzo meridionale e dalla rampolla di una dinastia hollywoodiana, capace di rastrellare successi a ripetizione nelle manifestazioni canore – compreso un Sanremo a metà degli Anni Ottanta, il decennio in cui ogni desiderio italico poteva appunto essere toccato con mano (realmente o virtualmente).
Infine, il declino e la caduta, tra travagli, dolori profondi, tribunali e denari (come in ogni separazione), che, a giudicare dalla fisiognomica di Carrisi dell’altroieri, non sono stati ancora superati. Come, ahinoi e nuovamente, accade pure per la nostra povera Italia stritolata nella morsa della crisi.
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