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Michele Anselmi per “il Secolo XIX”
alberto barbera al festival del cinema di venezia
Una cosa è certa, sin da ora. L’Italia non vincerà il Leone d’oro alla 71ª Mostra di Venezia che si apre mercoledì con “Birdman” di Alejandro González Iñárritu, protagonista il redivivo Michael Keaton. È successo l’anno scorso, col documentario “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi, sicché pare improbabile, se non impossibile, un bis. Ma il direttore Alberto Barbera non si dice così pessimista, anche per ragioni d’ufficio. Qualche premio alla fine verrà fuori. E molto punta su “Il giovane favoloso” di Mario Martone, “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo e “Anime nere” di Francesco Munzi.
d. Barbera, pensa davvero che il massimo premio possa baciare di nuovo uno dei tre film tricolori in gara?
r. «Perché escluderlo a priori? Le giurie sono imprevedibili, non guardano al passato, al verdetto dell’anno prima, ma ai film che hanno davanti. Confido nella curiosità dei giurati, guidati dal francese Alexandre Desplat».
d. Confidiamo. Eppure l’esperienza insegna che vinciamo il Leone d’oro solo quando c’è un presidente di giuria italiano. Ettore Scola nel 1998 per “Così ridevano”, Bernardo Bertolucci nel 2013 per “Sacro GRA”. L’aiutino conta, eccome.
r. «Io credo, invece, che sia una coincidenza. I film italiani vincono anche in altri contesti, a Cannes o a Berlino, dove non ci sono presidenti di giuria italiani».
d. Questo giornale ha scritto un mese fa: “La Mostra di Venezia va alla guerra. E riattacca Berlusconi”. Sarà un po’ schematico, ma è così. Meditazioni storiche sui conflitti armati e sulla politica, che qui da noi significa sempre e solo Berlusconi. Non le pare fuori tempo massimo?
r. «Bisognerebbe chiederlo ai registi. Non è la Mostra che va alla guerra o “attacca” Berlusconi, sono i registi che trattano questi temi. Io scelgo i film tra i circa 1.600 che mi vengono proposti. Le conclusioni si tirano alla fine, ci si accorge che i film si parlano, nulla avviene nel vuoto pneumatico ma in un flusso continuo. È la forza del cinema, specialmente del nostro».
d. Scommettiamo che “La Trattativa” di Sabina Guzzanti e “Belluscone, una storia siciliana” di Franco Maresco, benché fuori gara, faranno il pieno di polemiche giornalistiche e scateneranno il centrodestra?
r. «Mi sembra una scommessa vinta in partenza. Succede tutte le volte che si affrontano temi caldi della politica italiana. Sono due film che esprimono un punto di vista radicale. Ma se li ho scelti è perché sono artisticamente riusciti, interessanti. Sabina, ad esempio, firma con “La Trattativa” il suo film più bello e ambizioso».
d. E però la ricambia dandole pubblicamente del codardo per non averlo messo in concorso.
sabina guzzanti nuovo film "la trattativa"
r. «Nessuno è mai soddisfatto della collocazione. Ma un direttore fa scelte a ragion veduta. Poi arrivano i twitter e le telefonate. Pazienza. Con tutti ho dovuto discutere, anche con Sabina».
d. E veniamo alla guerra. Si ride poco anche quest’anno al Lido.
r. «Purtroppo è uno spettro che incombe ogni giorno su di noi, in maniera tragica, inaspettata. Non penso solo all’Ucraina, all’Iraq o alla striscia di Gaza. Sono film nei quali, attraverso drammatiche storie individuali, si racconta la guerra come follia permanente, pratica insensata, ferita difficile da rimarginare».
d. Può essere più preciso?
r. «Il massacro degli armeni nel biennio 1915-‘16 in “The Cut” di Fatih Akin; l’uso micidiale dei droni, non sempre così “chirurgici” nei risultati, in “Good Kill” di Andrew Niccol; le purghe anticomuniste nell’Indonesia del 1965 in “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer. Solo per dirne tre».
d. Sul fronte “sesso” e “religione” dobbiamo attenderci qualche mal di pancia?
r. «Direi di no. Sul tema sesso l’unico film esplicito è quello di Lars von Trier, che non è una novità: proiettiamo la seconda parte di “Nynphomania” nella sua versione non purgata. Il collettivo “Words of Gods” parla di Dio, dei e trascendenza, ma non c’è nulla che possa innescare dispute bollenti».
d. Ogni direttore magnifica il menù cucinato. Ma perché, per lei, i 55 film sono tutti «sorprendenti» se non addirittura «straordinari»?
r. «Per una ragione banale: abbiamo visto 1.600 film, molti ci hanno annoiato o lasciato indifferenti. Un centinaio invece ci hanno sorpreso: per stile, storie, originalità, forza espressiva. Lo straordinario si raggiunge in alcuni casi, quando si esce dalle convenzioni del cinema odierno».
sabina guzzanti nuovo film "la trattativa"
d. Lei ha detto: «Una selezione che osa, la logica soffocante del profitto non costituisce l’elemento dominante». Ci mancherebbe che fosse il contrario, no?
d. «Sì. Ma spesso ci si attende dai festival quello che i festival non possono dare. Li si accusa di assecondare le logiche del mercato, del divismo, dell’industria; o di essere troppo distratti rispetto ai gusti popolari del pubblico, elitari e astrusi. Tutto è vero e falso. È un problema di equilibrio: tra autori affermati, sperimentazione, ricerca, opere prime, scoperte, scommesse su talenti emergenti e cinematografie remote. I festival non sono un modo per risolvere problemi di comunicazione col pubblico, di orientamento, di promozione. Sono soltanto uno spazio in cui ognuno gioca le sue carte».
d. Ci tolga una curiosità: come parlano gli interpreti di “Pasolini” by Abel Ferrara?
r. «Proietteremo una versione ibrida. Willem Dafoe, che fa un Pasolini impressionante per somiglianza, parla inglese, i ragazzi di borgata romanesco, alcuni attori come Riccardo Scamarcio o Adriana Asti inglese con accenti italiano. Una strana commistione, in effetti. Ma perché no? Non è il film di un esordiente impacciato, Ferrara sa che effetti vuole ottenere».
1396117739 willem dafoe lo sciclitano e il pasolini di abel ferrara
d. Possibile che solo l’assenza di “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi sia fonte di dispiacere? “Gone Girl” di David Fincher e “Inherent Vice” di Paul Thomas Anderson vanno al Festival di New York, e va bene. Ma “Big Eyes” di Tim Burton?
r. «Ci tenevamo, certo. L’abbiamo corteggiato. Ma alla fine il film non va a nessun festival d’autunno, esce a Natale. La produzione ha scelto così. Bisogna prenderne atto e basta».
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