IL CINEMA DEI GIUSTI – CI VUOLE UN INGLESE PER MOSTRARE IL PECCATO ORIGINALE D’AMERICA NEL MAGISTRALE, FORTE, COMMOVENTE “12 ANNI SCHIAVO”

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

Marco Giusti per Dagospia

12 anni schiavo di Steve McQueen.

La prima inquadratura si apre su un gruppo di schiavi ripresi frontalmente che vengono istruiti su come tagliare la canna da zucchero in un campo. In una scena successiva vediamo uno di loro, Solomon Northup, ribattezzato Platt, che cerca di scrivere con una penna rudimentale formata da una canna e un inchiostro fatto di succo di more. Poi c'è una donna vicino a lui, che cerca sesso. Un flashback porta Solomon indietro nel tempo, a letto con sua moglie.

E lì partono i titoli, "12 years a slave", cioè "12 anni schiavo", con 12 scritto come da una penna con inchiostro rosso e "years a slave" scritto come da stampa ottocentesca. Perché tutto questa "storia vera", come leggiamo dai titoli di testa, diventerà un libro. E per oltre un'ora di film, noi seguiremo il percorso che fa Solomon per comunicare con la sua famiglia, raccontare la sua storia e liberarsi dallo stato di schiavo. Per esprimersi con la scrittura, insomma, anche se non gli servirà poi a tanto.

E' all'interno di tutto questo sforzo di Solomon per comunicare e liberarsi dallo stato di schiavo, lui che è nato libero e sa esprimersi naturalmente con la scrittura e la musica, che Steve McQueen costruisce il suo terzo film, questo magistrale, forte, commovente "12 anni schiavo", nato dal libro e dalla vera storia di Solomon Northup, schiavo dal 1841 al 1853, ultimo tassello di un trittico che ha costruito, assieme a "Hunger" e a "Shame", sulla condizione di prigionia dell'uomo, partendo dall'Irlanda di Bobby Sands e passando poi per la dipendenza dal sesso nella New York di oggi.

La condizione di prigioniero, di schiavo, permette a Steve McQueen di lavorare costantemente, quasi su ogni scena e su ogni inquadratura, sulla realtà dei rapporti fra gli uomini, fra i torturatori e i torturati, il "peccato originale d'America" come scrivono i critici americani, ma forse il peccato in generale, che tormenta tutti, chi lo subisce e chi lo pratica, e l'esplosione di creatività nata dalla disperata ricerca di comunicazione esterna. Al punto che diventa scrittura e espressione artistica in "Hunger" il riempire della propria merda i muri delle carceri, in tutti e tre i film lo scrivere e il vivere sul proprio corpo le piaghe di Dio della condizione di schiavitù.

Il corpo di Patsey, Lupita Nyong'o, martoriato dalle piaghe della frusta, diventa espressione della violenza e del dolore degli schiavi e della follia del padrone Epps, un grandioso Michael Fassbender, mentre Solomon, Chiwetel Ejofor, costretto a frustare anche lui la ragazza, rimane per quasi tutto il film quasi spettatore attonito di quel che gli sta succedendo. Anche quando subisce su di sé gli orrori dei padroni bianchi, come il rimanere impiccato in bilico sulla punta del piede, rimane soffocato non tanto dalla corda, ma dal procedere della vita che ha attorno a sé in una delle scene più complesse e belle del film.

McQueen, come nei film precedenti, gioca sulla complessità della schiavitù e della dipendenza, sul malessere incarnato da Epps, con moglie ancora più orrenda, dal "buon" padrone Ford, il sempre incredibile Benedict Cumberbacht, e dalla sua "buona" moglie, sul sadico Tibeats di Paul Dano. La caduta all'inferno di Solomon, uomo libero di Marksville nel Nord che viene privato della propria identità e venduto come schiavo nella Georgia razzista e schiavista, rivela sì il peccato americano, la dipendenza quasi sessuale dei padroni bianchi rispetto allo schiavismo, il loro rapporto con la bellezza e l'innocenza delle ragazze, ma anche la loro incapacità di scrittura, di espressione, proprio perché schiavi del loro orrore.

Non c'è una scena che McQueen, come nei suoi video d'arte, non costruisca a partire dal suono, dal rumore, che siano i motori della nave che porta gli schiavi al Sud, o il fiume, le canne, le frasche, gli insetti, il terribile boll weevil del cotone. E dove non si senta parlare un inglese classico, sia da parte degli attori bianchi, che dagli attori neri, lo stesso Chiwetel Ejiofor parla un inglese forbito che sarà costretto a nascondere.

E' come se il peccato originale del paese si stia formando a partire dal nucleo della vecchia Inghilterra. Solo il personaggio di Bass, Brad Pitt, il canadese, è come esterno al peccato, il personaggio positivo che porterà alla salvezza dall'inferno dei dodici anni di Solomon passati da schiavo. Se la scrittura fallirà, la sottile tela di rumori, suoni e immagini, di una natura sempre più forte e di una violenza e umanità sempre più presenti, attentamente messa in scena McQueen, finirà per esplodere in forme non previste da Solomon.

Così al violino, che distruggerà, quando scoprirà l'impossibilità di scrivere una lettera ai suoi, si sostituirà lo spiritual degli schiavi, musica che nasce dai campi e dai suoi umori e rumori, e alla scrittura si sostituirà la comunicazione verbale con Bass, l'aprirsi nella civiltà. Se Solomon mantiene per tutto il film il suo sguardo aperto sull'orrore e perché deve vedere, capire e poter raccontare poi tutto, mentre ai suoi terribili padroni, come agli schiavi più sfortunati, spetta il compito di precipitare nell'orrore del peccato americano.

Salutato in America come un capolavoro, "12 anni schiavo" è un grandissimo film di un autore che da "Hunger" in poi ha mantenuto intatta la sua ispirazione e la sua maniacalità di scrittura, portando al cinema uno sguardo completamente nuovo. Solo così ha potuto affrontare, così profondamente, un tema forte come lo schiavismo in America e la formazione di un paese che non ha ancora superato lo shock della scoperta dei propri orrori.

Se "Django Unchained" di Quentin Tarantino riporta il tema dello schiavismo al cinema, e lo supera con l'esplosione di blaxploitation, McQueen si serve dell'arte, della sua arte, per arrivare al cuore profondo della storia. E nell'orrore si spinge molto avanti. Ovviamente i critici italiani, da Paolo Mereghetti in giù, non lo hanno capito. Due palle. Cosa dire? In sala dal 20 febbraio.

Ps: inutile dire che il doppiaggio appiattirà tutta la costruzione sonora del film, che è parte centrale dell'opera del regista...

 

brad pitt 12 years a slave 12 years a slave 12 years Slave Twelve Years a Slave di mcqueen 12 years a slave 12 years a slave 12 years a slave