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«Certo che per essere una trans sei proprio bella. Ti ha fatto male l’intervento? Hai orgasmi? Il tuo vero nome qual è? La natura è stata proprio cattiva con te. Certo che non sembri una trans, sembri una donna. Sei noiosa quando parli dei tuoi problemi. Questi sono i tuoi capelli veri? Cosa ti sei rifatta? Posso toccarti la pelle? Tutti i giorni io sento queste frasi. Tutti i giorni è come se dovessi cominciare da capo la mia battaglia. Transessuale, brasiliana, figlia di Cerezo, modella e poi, alla fine, Lea».
Lea T, modella brasiliana, figlia dell’ex calciatore Toninho Cerezo combatte da anni le discriminazioni. Nata Leandro, è stata la prima donna transessuale a sfilare in passerella, fortissimamente voluta da Riccardo Tisci, all’epoca direttore creativo di Givenchy. Oggi Lea T, pseudonimo di Leandra Medeiros Cerezo, ha 38 anni e al Vanity Fair Stories, protagonista del talk «Free to be Lea» (in collaborazione con Zalando), parla delle sua battaglie e delle sue conquiste.
Ma chi è Lea davvero? «Innanzitutto sono una persona, che sanguina, che sente dolore, che ha emozioni e che vive. Sono una donna transessuale, una modella, figlia di una famiglia brasiliana, cresciuta in Italia da quando ha un anno. Da dieci anni faccio la modella e credo che questo sia stato per me un traguardo davvero importante».
Ma quando parla di libertà, come recita il titolo del suo intervento, Lea frena: «Io non sono libera. La società non ci rende liberi. La libertà è una parola concessa a poche persone. Non a noi donne. Tantomeno alle donne latine e ancora meno alle donne transessuali».
Nella moda, invece, vede dei passi avanti: «Tutte le persone che lavorano nella moda stanno cercando di trasformare il sistema e di renderlo più inclusivo. In passato era qualcosa riservato a persone ricche, bianche, eterosessuali. Adesso tutto questo sta cambiando. Oggi la moda ha cominciato ad aprirsi a cercare di fare in modo che le persone possano identificarsi»
Quando parla della sua famiglia si illumina: «Si parla sempre di mio padre, che sicuramente è stato molto importante per me, ma il ruolo di mia madre è stato fondamentale. Mi ha tenuto per mano tutta la vita. Quando devo parlare dei miei problemi di donna, quando devo comprendere certe realtà per molti aspetti nuove per me è a lei che mi rivolgo. Parlare di mia mamma per me è come parlare di una divinità profonda. Lei mi è stata accanto in tutto il mio percorso e viviamo ancora insieme».
E a tutte le famiglie che si trovano a fare un percorso come il suo Lea ha qualcosa da suggerire: «Ogni storia è differente ma dico ai genitori: rispettare le scelte dei vostri figli e siate empatici, provate a mettervi al loro posto. Mia madre all’inizio ha sofferto moltissimo, più di mio papà. E io vengo da una famiglia in cui non c’è mai stato nessun tipo di discriminazione. Lei era preoccupata. Preoccupata del fatto che io potessi soffrire. Poi a un certo punto è arrivata e mi ha chiesto scusa. “Sono stata egoista. Pensavo alla mia sofferenza e non alla tua che è molto più grande della mia”, mi ha detto. E lì ho capito le sue paure più profonde: viviamo in una società patriarcale nella quale se non sei allineato con il sistema vieni massacrato. Oggi lei ed io combattiamo insieme contro le discriminazioni».
«Sogno un mondo», ha concluso Lea, «in cui razzismo e discriminazioni finiscano e in cui l’uomo impari di più a rispettare la natura. Io sono di origini indigeno-africane e questa cosa noi ce l’abbiamo dentro».
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