DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Marta Serafini per il “Corriere della Sera”
Lo ha preteso la Casa Bianca. Lo hanno chiesto gli utenti: «Non pubblicate quelle immagini». Ma ancora una volta il dilemma non trova soluzione. Cosa mostrare? Cosa censurare? Come trattare una notizia così terribile come la decapitazione di un giornalista senza correre il rischio di diventare cassa di risonanza della jihad? E, soprattutto, chi deve decidere cosa mandare in onda: il governo, i media, o i colossi della tecnologia?
E’ il primo pomeriggio di martedì negli Stati Uniti, quando al-Furqan Media, braccio di Isis per la propaganda, posta su YouTube il filmato con l’esecuzione di James Foley. Passa poco meno di un’ora e dalla sede di Google decidono di rimuovere il contenuto che però viene ricaricato da un altro utente. Il link inizia a diffondersi via Twitter, piattaforma che conta 271 milioni di utenti in tutto il mondo. Difficile fermarlo.
Ci vogliono altri trenta minuti prima che i tecnici di YouTube riescano a far sparire Foley in tuta arancione dai loro server. Per prendere il provvedimento è bastato applicare alla lettera le regole. «YouTube non è un sito shock. Non pubblicate video disgustosi di incidenti, persone morte e altri soggetti simili», si legge nella pagina dedicata alle policy .
Il giornalista Zaid Benjamin, corrispondente a Washington per Radio Sawa è tra i primi a commentare il filmato in rete. Non sa che nel frattempo, da Twitter hanno scelto di bloccare i profili che diffondono contenuti violenti, non appropriati. «Abbiamo sospeso e continueremo a farlo gli account di chi diffonde immagini sulla morte di Foley», scriverà in 140 battute qualche ora più tardi Dick Costolo, amministratore delegato dell’uccellino blu.
Una posizione che non sorprende, se si pensa che pochi giorni prima, sulla scia delle polemiche per gli insulti a Zelda, la figlia di Robin Williams, era stata introdotta per i familiari la possibilità di richiedere la cancellazione delle foto dei parenti.
I social però non tacciono, è qui che si misura la libertà di espressione. In molti iniziano a pubblicare il giornalista sorridente, sul campo, mentre fa il suo lavoro. Compare anche la casa dei genitori di Foley, dove rimane accesa una candela, segno di speranza.
«Non facciamo propaganda per Isis», è il grido che si alza. Gli hashtag #Isismediablackout e #NoShare entrano subito nella classifica degli argomenti più discussi.
Gli utenti chiedono di oscurare ogni tipo di messaggio degli uomini di al Baghdadi. Ma è possibile combattere contro una macchina da guerra che produce 40 mila tweet al giorno e che si serve di altre piattaforme come Ask.fm, forum che tanto piace agli adolescenti? Gli analisti iniziano ad obiettare. L’antropologa Sarah Kendzior su Al Jazeera si chiede: «Perché oscurare Isis e non al-Nusra, Hezbollah o i Talebani».
Un reporter del Guardian cita l’«effetto Streisand»: «Censurare una notizia significa darle ancora più risalto». C’è anche chi si infuria con la Cnn per aver mandato in onda i secondi precedenti all’esecuzione. «Questa non è informazione, ma sciacallaggio». «Sbagli, è come Auschwitz, tutti devono vedere», gli risponde un altro. E così avanti per ore mentre il buio scende sugli Stati Uniti.
Poi, per un solo lungo attimo, sui social cala il silenzio. Su Facebook è comparso il messaggio della madre di Foley. Poche parole — «Non siamo mai stati così orgogliosi di lui» — che straziano il cuore e riportano le cose al loro posto. Un giornalista, James Foley, è stato ucciso dai terroristi. E forse non c’è molto altro da aggiungere. Almeno, non su Twitter.
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