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Silvia Stucchi per ''Libero Quotidiano''
Mi darà voce il fato è il titolo della lettura collettiva organizzata dagli allievi della Scuola Normale, fino ad oggi per ricordare il bimillenario della morte di Ovidio.
Una tre giorni con inizio venerdì prossimo dedicata alla lettura di alcuni brani del massimo poeta elegiaco latino, che avverrà in alcuni luoghi del centro di Pisa e che sarà affidata a trecento persone. A declamare i versi, dalla Metamorfosi, ai Rimedi contro l' amore. Ma non è il solo modo per festeggiare il poeta: il Senato sta calendarizzando le celebrazioni.
Ed esce anche, del poeta l' ultima biografia completa. Dopo Viva il latino, nel suo ultimo saggio Con Ovidio. La felicità di leggere un classico (Garzanti, 188 pp., 15 euro), Nicola Gardini, docente di Letteratura Italiana a Oxford, si focalizza sull' autore che ha conteso per secoli a Virgilio la palma di classico di Roma: Ovidio.
Contro la facile vulgata dell' Ovidio salottiero, ancora perpetrata da tanti libri di testo, che parlano di lui come poeta della dolce vita ante litteram, frivolo, decadente e fantastico, anticipatore del barocco e fors'anche del dannunzianesimo, tutto risolto nell' esercizio meccanico della letteratura, imitatore arguto, ma superficiale (p. 17), Gardini invita a scendere «sotto la marezzatura e i ghirigori dello stile», per arrivare alle radici della rivoluzionaria immaginazione ovidiana.
Prima di tutto, Ovidio, nell' incipit della sua prima opera, gli Amori, dichiara di scrivere nel segno della voluptas, del "piacere", parola quant' altre mai scandalosa nella Roma di Augusto, teso a restaurare il severo mos maiorum. Poi, ci dà una lezione di estetica letteraria: attento, lettore: «tra scrittura e lettura corre un rapporto di scambio paragonabile a quello degli amanti».
Chiave segreta, fil rouge, «sorgente profonda», dice Gardini (p. 23), della poesia ovidiana è l' incertezza, intesa in senso negativo (angoscia, destabilizzazione, dubbio), ma anche positivo (ricerca di appagamento di un desiderio sempre variabile, passaggio, trasformazione): così, il discorso di Pitagora che apre l' ultimo libro delle Metamorfosi, imperniato sul continuo fluire della materia in nuove forme, è un modernissimo inno al "nulla si crea, nulla si distrugge".
Perché se il grande edificio ovidiano si regge su basi precarissime, l' incertezza può anche essere una forza. Leggendo un classico, accogliamo un sopravvissuto: e se la sua forza sta nella varietas, chi è più vario di Ovidio? Senza le sue elegie, non avremmo avuto la lirica cortese; senza le Metamorfosi, Dante non sarebbe quel che è (innumerevoli i debiti ovidiani nella Commedia); e in generale la letteratura europea non sarebbe la stessa.
Ovidio, con la continua dialettica fra realtà e irrealtà, presenza e assenza, immagine naturale e artificiale, originale e copia (pensiamo ai racconti di Narciso e Pigmalione) ci fa capire, sulla scia d' Omero e dei sofisti, che il virtuale, di cui tanto ci riempiamo la bocca, non è nostra invenzione.
È il primo poeta a non voler essere l' equivalente romano di Omero, di Callimaco o di Menandro: vuole essere, orgogliosamente, solo se stesso. È un dissidente, un figlio disobbediente, un anti-politico, un Fetonte e non un Enea: la spregiudicata Arte di amare è una bestemmia nella Roma di Augusto; e forse il principe non apprezzò troppo neanche le Metamorfosi.
Soprattutto, Ovidio è un coraggioso, che si cimenta nell' epica una generazione dopo Virgilio, riverito e osannato e già in vita entrato nelle scuole; il suo ardire è paragonabile solo a quello di Petrarca, impavido nello scrivere il Canzoniere, l' Africa e i Trionfi mentre si diffonde il culto della Commedia, sino a dire, mentendo consapevolmente, di non avere mai voluto nemmeno leggere un testo che tutti, anche le donnette ignoranti, recitavano nei crocicchi.
Con Ovidio è una miniera di spunti; non da ultimo, le traduzioni dei passi poetici sono impeccabili: aderenti al testo, metriche ed eleganti: vive.
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