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SI ANNUNCIANO TEMPI SEMPRE PIU' DURI PER LA GIORGIA DEI DUE MONDI - AL SUMMIT DI LONDRA, STARMER E…
“DOVEVO BACIARE PATTY PRAVO E NON CI RIUSCIVO: E' COSÌ CHE FECI COLPO SU VITTORIO DE SICA” – RAFFAELE CURI, ATTORE E DIRETTORE CREATIVO DELLA FONDAZIONE ALDA FENDI, RACCONTA COME POI PERSE LA PARTE DA PROTAGONISTA DEI FINZI-CONTINI - LA SENSITIVA DEL SUO PAESINO NELLE MARCHE CHE RIUSCÌ A FARLO RECITARE E L'UMILIAZIONE RICEVUTA DAL REGISTA – "MAN RAY AMAVA ANDARE A MANGIARE AL RISTORANTE 'LA PAROLACCIA' SOLO PER GUSTARSI LA SCENA DEI CAMERIERI CHE INSULTAVANO CAROL RAMA, ORMAI ANZIANA. “A BEFANAAAA!”, LE URLAVANO. E LUI GODEVA" – CON MENOTTI AL FESTIVAL DEI DUE MONDI DI SPOLETO: “NON OSPITÒ MAI SAMUEL BECKETT. GLI CHIESI IL PERCHÉ E MI RISPOSE…” - LA MOSTRA
Tommaso Labate per corriere.it - Estratti
Roma, 1970. «All’uscita dall’Accademia d’arta drammatica, che frequentavo da poco, un giorno c’era una vecchia signora che mi guardava. L’indomani si ripropose la stessa scena, con la stessa signora. Il terzo giorno, di nuovo la signora.
Ci parlammo: era la mitica Luisa Alessandri, che era stata aiuto regista di Vittorio De Sica in Sciucià, Ladri di biciclette… Mi propose di andare a fare un provino con De Sica e così, dal nulla, mi ritrovai a Cinecittà nel grande casting de Il giardino dei Finzi-Contini: io e Patty Pravo a recitare in ruoli che poi sarebbero andati a Lino Capolicchio e Dominique Sanda».
Patty Pravo nei panni di Micol?
«A recitare non era capace ma era terribilmente bella. Mi sentivo un babbeo anche solo a guardarla. Per quel ruolo De Sica aveva in mente un solo nome: Dominique Sanda. Il problema era che la Sanda stava girando Une femme douce con Bresson e quindi non era disponibile. Il maestro quindi prendeva tempo con la produzione, provinando centinaia e centinaia di attrici con l’obiettivo di non farsi piacere nessuno fino a che non fosse stata libera Dominique. Che infatti poi fu una straordinaria Micol Finzi-Contini».
E lei?
«Io venni preso perché a un certo punto dovevo baciare Patty Pravo ma non ci riuscivo. De Sica, che ci guidava durante la scena, diceva “ora!”. Ma io niente, non la baciavo. Al quarto tentativo mi chiese: “Scusa, tu hai mai fatto l’amore?”. “Mai, maestro”, risposi io. A quel punto, chiese che venissero accese tutte le luci, mi indicò e urlò verso gli assistenti: “Abbiamo il protagonista del film!”».
Raffaele Curi è il direttore creativo della Fondazione Alda Fendi. Ha appena inaugurato la mostra-installazione Is it sundown, la provocazione in cui si chiede se l’intelligenza artificiale non sia la tomba dello spettacolo e dell’arte (a Roma, Palazzo Rhinoceros, fino al 15 ottobre).
(...)
Come finì?
«Mi fecero il contratto per fare il protagonista dei Finzi-Contini. Povero fesso che ero, ragazzo di provincia che veniva dalle Marche: mi diedero un milione e mezzo, stop».
Come mai perse la parte?
«Una sera mi telefonò De Sica e mi disse che la Titanus gli aveva imposto Lino Capolicchio, che era l’attore del momento. E che lui, nonostante non gli piacesse perché per quel ruolo serviva sostanzialmente un ingenuo tipo il sottoscritto, non aveva potuto dire di no. Mi diede una parte più piccola, quella di Ernesto».
Sul set come andò?
«Immagini un ragazzo di provincia di vent’anni scaraventato in quel mondo. Helmut Berger bussava violentemente alla porta della mia stanza perché voleva portarmi a letto, io urlavo e chiamavo De Sica spaventato. De Sica a volte interveniva: “Lo volete lasciare stare Cuny?”».
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VITTORIO DE SICA - CESARE ZAVATTINI
Lei da dove viene, Curi?
«Dalle Marche. Studi dai salesiani. Famiglia borghese: non pane e caviale ma nemmeno pane e cipolla. Quando morì mio padre, la situazione economica peggiorò di brutto. Visto che avevo uno zio medico, che aveva messo su una clinica, mia mamma mi spinse a iscrivermi a Medicina».
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Come arrivò a girare Casanova con Fellini?
«Grazie alla sensitiva Pasqualina Pezzola, che era del mio paese, Civitanova Marche. Analfabeta, era in grado di toccare una persona e di fargli le analisi del sangue».
Prego?
«Ti toccava e diceva trigliceridi, colesterolo, globuli bianchi, con i valori precisi al millimetro. E il bello è che non sapeva neanche che cosa fossero i trigliceridi. Ma diceva la parola esatta, come per magia. Una sensitiva, insomma. Pensi che mio zio medico se ne serviva per fare le prime diagnosi ai suoi pazienti. Fellini la teneva in grande considerazione; forse anche più di Gustavo Rol».
Pezzola intercedette per lei?
«Gli telefonò. “Federi’, c’è questo mio amico Raffaellino, vuole lavorare nel tuo film”. Fellini, che avrebbe mandato a quel paese persino il presidente della Repubblica se avesse osato fargli una raccomandazione, a Pasqualina obbedì e mi prese per Casanova. Poi però si vendicò».
Come?
«Il film si era fermato per il fallimento del produttore italiano ma poi ricominciò con la nuova produzione americana. Alla ripresa, al Teatro 5, c’era chiunque. Compresa Ava Gardner, che stava girando Cassandra Crossing a Cinecittà. La prima scena era la mia, che interpretavo insieme a Renato Zero uno che stava nella corte di Gutenberg. Insomma, nel ciak c’eravamo io, sudatissimo ed emozionato, Donald Sutherland e Leda Lojodice, la bambola meccanica. Avevo uno spadino, col quale ruppi per errore il costume di coralli realizzato da Danilo Donati. Non riuscivo a dire bene la battuta, Fellini mi chiese di contare. L’umiliazione massima, segno che mi avrebbe doppiato».
raffaele curi foto di bacco (2)
Addirittura.
«”Dove hai studiato?”, chiese Fellini davanti a tutti. “All’Accademia”, risposi io. “E si vedeeeeee!”, chiosò”».
Come arrivò a fare l’assistente di Man Ray?
«Per caso e grazie al cinema. L’appartamento in cui giravamo a Torino “Un uomo, una città” era di Luciano Anselmino, amico di Warhol, il più grande mercante d’arte pop del periodo. Diventai amico suo e anche di Carol Rama. Tempo dopo, mi telefonò per dirmi se volevo fare il modello per uno dei mitici mini film di Man Ray, in quella che sarebbe stata la sua ultima esposizione, “L’occhio e il suo doppio”, a Roma. Accettai. Al Grand Hotel, dove si girava, trovai Man Ray, la moglie Juliet e Luis Buñuel. Pensi che emozione. Gugliemino mi chiese quanto volessi, dissi che mi sarei accontentato di un autografo di Man Ray sul catalogo della mostra. E venni premiato».
Come?
«Evidentemente dissero a Man Ray che avevo lavorato gratis, almeno così la immagino. Fatto sta che mi chiamò a casa per andare a cena con loro. Finii per passare due mesi indimenticabili accanto a lui. Certe sere si faceva portare su una sedia a rotelle, altre volte aveva il bastone, la verità è che camminava benissimo: voleva semplicemente che lo scambiassero per un infermo, era surrealismo anche questo.
Amava andare a mangiare al ristorante La Parolaccia solo per gustarsi la scena dei camerieri che insultavano Carol Rama, ormai anziana. “A befanaaaa!”, le urlavano. E Man Ray godeva. Il sindaco di Roma, Clelio Darida, gli diede le chiavi della città; inoltre chiese al più grande artista italiano vivente, Giorgio De Chirico, di realizzare un dipinto apposta lui. Il problema era che i surrealisti come Man Ray odiavano la metafisica di De Chirico…».
E quindi?
«Man Ray mi diede il De Chirico appena ricevuto in omaggio ordinandomi di strapparlo e buttarlo nel water del bagno Grand Hotel. Lo appallottolai, lo consegnai alla reception e passai a prendermelo il giorno dopo».
Vent’anni con Menotti al Festival dei due mondi di Spoleto.
«Lanciò chiunque: Al Pacino, Kathy Bates, Tomas Milian. Fece conoscere all’Italia il teatro di Tennessee Williams ma non ospitò mai Samuel Beckett. Gli chiesi il perché e mi rispose: “Non mi fare mai più questa domanda”. In quei vent’anni ho conosciuto chiunque, compreso Carlo d’Inghilterra, di cui sono diventato molto amico e che poi sono andato a trovare anche in Scozia. Ho anche il numero telefono: gli ho scritto un messaggio quando è diventato re».
Le ha risposto?
«No».
raffaele curi
raffaele curi alda fendi foto carlo bellincampi
raffaele curi mostra
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raffaele curi foto carlo bellincampi
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tahar ben jelloun raffaele curi foto carlo bellincampi 1
benedetta lucherini raffaele curi foto di bacco
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raffaele curi
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