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Arianna Finos per “la Repubblica”
Ogni volta, prima di girare una scena cruenta di morti ammazzati, Nicolas Winding Refn s’arrotola sui fianchi una copertina scozzese come un pareo. Segue il rito di Linus il regista danese, l’autore culto della brutale trilogia di Pusher , una delle figure più interessanti nel panorama cinematografico mondiale. Un patchwork di contrasti.
Mammone e (artisticamente parlando) pornografico, imbranato e ribelle, continuamente dilaniato tra bisogni morali e esigenze di violenza estetica. Danese di Copenhagen, a quarantacinque anni ha costruito una carriera di alti e bassi, bancarotte e premi, applausi e bordate di fischi. «Io sono i Sex Pistols del cinema», ha esclamato all’ultimo festival di Cannes dopo la contestazione dei critici al suo The Neon Demon.
«L’arte è provocazione. Grazie a me il festival si è risvegliato». Giacca e calzoni al ginocchio da collegiale, la camicia troppo aperta sul petto bianco, Nicolas Winding Refn si proclama alfiere del cinema del futuro: «C’è una battaglia in corso tra l’establishment dei critici e i ragazzi della rete, tra antico e moderno» ha aggiunto a Milano, affiancato da Dario Argento, arringando una platea di giovani in una masterclass alla Sky Academy.
Okey, ma essere moderni che significa?
«Significa inventare qualcosa di nuovo, spingere l’evoluzione, trovare nel cambiamento il proprio punto di vista». La ribellione, dunque, come processo necessario: «Succede sempre. I miei figli si ribellano, come io ho fatto con i miei genitori». Refn sembra avere le idee chiare, e perdipiù in un momento di trasformazione epocale per il cinema: «Non temo la rivoluzione digitale, la accolgo a braccia aperte. I nuovi media alzano il livello delle possibilità.
Amazon ha prodotto tanti film, tra cui il mio per esempio. Sono loro le major del futuro, il vecchio cinema è in fase di stagnazione, fatto di blockbuster hollywoodiani controllati da pochi giocatori». Dopo aver sistemato l’industria, con la stessa aria serafica passa a demolire la critica:
«Non c’è più bisogno di recensori, è un lavoro in disuso. Il sistema cineasti-produttori-critici è una capsula ristretta non riproducibile in un paesaggio vasto come quello digitale. Lì non c’è nessuno che ti dice come e quando distribuire, che certifica il bello o il brutto ». E ancora: i consumatori della rivoluzione digitale «sanno cosa cercano, non si curano delle opinioni altrui. Sono guidati dall’emozione più che dalla comprensione».
Refn è stato un demolitore professionista fin dall’infanzia. La sua visione del mondo è sempre stata molto peculiare. «Ho un difetto congenito che non mi permette di distinguere i colori. Ciò che vedo sono solo le diverse sfumature di grigio e i contrasti». Il suo stile visivo dal segno cromatico fortissimo nasce dunque da un difetto. Non il solo. «Sono fortemente dislessico. Ho conosciuto il mondo attraverso la grammatica delle immagini».
Figlio del regista Andreas Refn e della fotografa Vibeke Winding, quando i genitori si separarono seguì la madre a New York, dove è vissuto dagli otto ai diciassette anni. «Vivevo confinato nel nostro appartamento di Manhattan. Ho imparato a parlare in inglese solo a tredici anni. Mi sono nutrito di tv. All’epoca in Danimarca c’era un unico canale, come in Europa dell’Est. Negli Stati Uniti il telecomando mi ha aperto infinite possibilità ».
Ha fagocitato di tutto: «Mia madre aveva regole ferree, ho inventato i miei espedienti per bypassarle. Cambiavo canale a ogni suo ingresso, guardavo i programmi per adulti senza audio. Mi erano vietati gli horror e Ronald Reagan». È cresciuta una passione violenta per il cinema feroce, «una forma di ribellione contro mia madre» che si è saldata alla sua attitudine ribelle.
Il giovane Refn si è fatto buttare fuori dalla scuola di recitazione: «Ho un odio radicato verso l’autorità, la considero nemica della creatività. La voglia di spaccare porte, l’istinto punk mi è rimasto dentro: l’ho convogliato nei film».
Biondo, fisico poco tonico e faccia da buono, Nicolas ha recitato nel suo primo corto, Pusher, sparando a destra e manca. Un produttore lo vide e decise di finanziarne una versione lunga. Così, a ventiquattro anni, Refn si trovò a firmare uno dei debutti più folgoranti del cinema recente. Pusher ha conquistato subito i critici danesi con una storia cruda tra droga ed emarginazione mettendo insieme il John Woo di Hard Boiled e la Battaglia di Algeri di Pontecorvo:
«Frequentando e reclutando come attori uomini dei bassifondi di Copenhagen, ho capito che le loro erano esistenze tristi tutt’altro che epiche». Mads Mikkelsen, uno degli interpreti, disse che Lars Von Trier e Thomas Vinterberg avevano in testa Pusher mentre scrivevano il manifesto di Dogma. I due registi danesi, che fondarono un nuovo movimento cinematografico, in realtà non hanno mai confermato. Tanto più che tra Refn e Von Trier il rapporto è sempre stato piuttosto ambiguo.
Dopo la gaffe che valse all’autore di Le onde del destino il titolo di “persona non grata” a Cannes («Ho scoperto di essere nazista e sono felice di esserlo, capisco Hitler!» disse provocatoriamente salvo poi scusarsi) il giovane collega gli spedì la locandina de I ragazzi venuti dal Brasile, il film di Schaffner su Mengele.
E proprio all’ultima edizione del festival sempre Refn, interrogato sul suo rapporto con Von Trier, ha consegnato un esempio di umorismo scandinavo che ha gelato la platea: «Ero con lui l’altra sera. Abbiamo chiacchierato. Ha tentato di portarsi a letto mia moglie, poi si è cercato una prostituta».
Quello dei soldi — e della loro assenza — è un altro potente leit motiv nella carriera di Refn. Dopo i successi di Pusher (1996) e Bleeder (1999), ha tentato il salto in America («la Danimarca è un paese socialmente evoluto ma creativamente claustrofobico») e ha girato Fear X, con John Turturro. Un film dalle atmosfere lynciane molto amato dai critici e che si è rivelato un fiasco. Bancarotta dei produttori, famiglia sul lastrico costretta a tornare a casa:
«Lì ho avuto paura di non riuscire a mantenere i miei figli». Poi i due sequel di Pusher (nel 2004 e 2005), girati squisitamente per esigenze alimentari,hanno estinto i debiti e curato l’amor proprio. Il successivo Bronson (2008), un’Arancia meccanica sulla storia vera del detenuto Michael Gordon Peterson, ha acceso un riflettore su Tom Hardy che ne interpreta il protagonista:
«Al primo incontro non ci siamo piaciuti. Eravamo in un pub, lui bevitore, io astemio. Poi il nostro conflitto si è rivelato utile». Il super divo Ryan Gosling vide il film e volle Refn per dirigere Drive. Mentre giravano a vuoto per le strade di Los Angeles, il danese si mise a cantare insieme alla radio Can’t Fight this Feeling degli Speedwagon. E così capì che avrebbe raccontato di un taciturno cavaliere al volante nelle notti losangeline, brani pop per compagni di viaggio.
Conquistato il premio per la regia a Cannes, la coppia ha poi proposto, con meno successo, Solo dio perdona (2013). E poi? «Dopo tanti personaggi maschili e un clima omoerotico volevo raccontare le donne, che per me sono dee. Ho sempre amato mia madre, forse l’ho anche desiderata.
Mia moglie Liv (Liv Corfixen, protagonista in tre dei suoi film, ndr) è stata l’unica, nella mia vita. A ventiquattro anni ho lasciato la casa di famiglia e mi sono trasferito da lei. Oggi vivo per lei e per le mie figlie». La bellezza delle sue donne ha partorito The Neon Demon (in sala ora per IIF e Koch media): «Ho immaginato di essere una sedicenne, che è la vera perversione di qualunque uomo». Dopo Drive, è il ritorno al panorama di ville e piscine blu di Los Angeles «ma solo perché mia moglie ha detto che non sarebbe mai venuta in Giappone ».
NICOLAS WINDING REFN E RYAN GOSLING
Nel film Elle Fanning è una modella in carriera con quel nonsoché che le consegna il successo e con quello la rabbia famelica, cannibale, delle colleghe. Anche qui estetica e orrore «per raccontare l’ossessione per la bellezza di cui è preda la nostra società». Tra le fonti d’ispirazione la musica disco anni Ottanta di Giorgio Moroder e i maestri italiani.
Nicolas Winding Refn Carole Bouquet FOTO LAPRESSE
Mads Mikkelsen li elencava in Bleeder: Leone, Corbucci, Fulci, Lenzi, Bava, Argento, Deodato. La scena era ambientata in un videonoleggio e strizzava l’occhio all’autore di cui oggi Refn rappresenta la nemesi: Quentin Tarantino.
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