DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Marco Giusti per Dagospia
Niente da fare. Le giovani registi inglesi, per non parlare delle giovani sceneggiatrici inglesi hanno davvero una marcia in più. La Alice Birch che ha scritto questo notevole “The End We Start From”, opera prima alla regia di Mahalia Belo, parabola femminile sulla possibile fine dell’umanità, e su come potrebbe essere solo una ripartenza per tutta l’umanità, è la stessa che ha scritto “Lady Macbeth”, The Wonder”, la serie “Dead Ringers”, tutte operazioni forti e centrate sulle capacità recitative delle loro protagoniste, da Florence Pugh a Rachel Weisz.
Anche in questo caso tutto il film, tratto da un romanzo di Megan Hunter del 2017 che sembra anticipare sia “The Last of Us” sia la pandemia, poggia sulle doti interpretative della strepitosa Jodi Comer, che abbiamo visto in “Killing Eve”, e sul suo crescere progressivamente da donna in attesa a madre di un bimbo nato durante una catastrofe climatica che ha ricoperto d’acqua Londra e mezza Inghilterra obbligando i cittadini a una fuga biblica sulle colline.
Non riuscendo bene a capire quel che sta succedendo, esattamente come la protagonista, che si ritrova da sola a casa mentre arriva l’acqua e deve correre in ospedale per partorire, proprio in questo preciso momento storico, fra la pandemia, e l’oscuramento totale di Gaza, rimaniamo particolarmente colpiti da qualcosa che anche nella realtà sappiamo possa colpirci con la stessa semplicità da un momento all’altro. Lo spiega perfettamente il personaggio minore di Benedict Cumberbatch spiegando alla Comer la morte di sua moglie e dei suoi figli mentre stanno attraversando un ponte.
E’ la semplicità dei fatti che lo ha maggiormente toccato. E l’idea che basta una scelta sbagliata per portarti alla fine. Ma il film, in realtà, non ruota, come tanti postatomici o postcatastrofici fanno, sugli avvenimenti che portano i protagonisti in una situazione di pericolo. E’ interessato invece a mettere in scena i cambiamenti profondi della sua protagonista, la Comer, che da ragazzina partoriente diventa una madre indomita e la paladina di una idea di famiglia, rispetto alle persone che incontra e a quel che le sta capitando.
La vediamo in fuga col suo uomo verso la casa fuori città dei genitori di lui, Mark Strong e Nina Sosanya, poi sola col suo bambino in un rifugio che accetta solo un genitore, poi in viaggio con l’amica, Katherine Waterstone, sempre bravissima, verso un’isola del nord dove si è formata una comune dove non si può pensare al passato. Ma il passato esiste, glielo dice anche Benedict Cumberbatch, e allora la madre indomita riparte col suo bambino per tornare a Londra.
Non è, ripeto, un postatomico alla “The Road”, né un videogioco intelligente alla “The Last if Us”, è un film su tutte le possibili declinazioni della femminilità nei tanti momenti importanti della vita. E Jodie Comer, dopo una prima parte parecchio angosciosa, riesce a trasmetterci una carica vitale che non sarà facile dimenticare. Esce in Italia il 24 gennaio 2024.
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