FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Tratto da libro di Fulvio Abbate: ‘’Roma?vista contro vento’’
FULVIO ABBATE - ROMA VISTA CONTROVENTO
Confidiamoci un’amara verità: i radical chic, quelli veri, a Roma non ci sono più, in città infatti è impossibile esserlo davvero, la prevalenza della piccola borghesia uccide la loro esistenza, sia quantitativa sia, cosa assai più grave, qualitativa. La crisi economica e l’attenuarsi delle spinte mondane e ideali hanno influito, tagliando risorse, anche su questo ramo d’impresa personale.
Culturale, antropologica, magari perfino politica. Impossibile trovare qualcuno in grado di non sfigurare per supponenza accanto, metti, a coloro che al tempo di Gian Maria Volonté, attore militante, trovavi nelle altane di Trastevere o di via dell’Orso a Brera davanti a un bel sartù di riso a immaginarsi presto nuovi partigiani in Cile con i soldi ottenuti dalla mamma nota industriale dell’acciaio borghese-capitalistico.
In verità, volati via i pezzi unici adatti al ruolo, come il compianto politico Lucio Magri, lui che pretendeva che il loden, la sciarpa e perfino la biancheria intima fossero di cashmere, dimmi tu verso chi volgere lo sguardo? Non lo ritrovi uno Schifano che nei giorni di piazza Fontana, come abbiamo già detto, prestò la Bentley al leader di Servire il popolo, Aldo Brandirali, affinché quest’ultimo potesse raggiungere Milano passando indenne dai posti di blocco presso la Flaminia.
Restano, monadi sospese, pochi soggetti obliterati dal nuovo che avanza: però che supplizio essere condannati a misurarsi con l’ordinario democratico che ti sovrasta, con Beppe Grillo che ti parla sulla voce, con l’intrattenitore Fiorello che fa più opinione di Massimo Cacciari; e che dire di Asor Rosa costretto a passare dai Minima moralia di Adorno ai dibattiti con il cantautore Vinicio Capossela, simbolo del banale tuttavia d’autore?
I radical chic a Roma non hanno più spendibilità sociale: nel migliore dei casi gli è consentito essere insostenibili modello base; non vale più la credenziale d’avere un tempo acquistato i Grundrisse di Karl Marx o Una donna per amico di Lucio Battisti. Gli manca l’acqua in cui nuotare, la citazione di “La terrazza” di Ettore Scola come opera che ne denunci la miseria morale è solo un puro automatismo.
Né basta l’esistenza pubblica ormai trascorsa di un ex leader comunista di nome Fausto appassionato di feste per comprovare l’esistenza della categoria. Al massimo visitare una mostra del cosiddetto “Radical design” in una galleria di via dei Chiavari, alla ricerca feticistica di libri rari fuori catalogo e molto altro, compresi oggetti imperdibili per il collezionista interessato principalmente alle arti visive del Novecento, fra pittura, scultura, architettura, fotografia, arti decorative e ovviamente cinema.
Già, l’esperienza straordinaria di un certo design degli anni sessanta, il “radical design” appunto. Firmato da gruppi quali Superstudio, ufo e Archizoom, o da singoli soggetti professionali come Ettore Sottsass e Gianni Pettena.
Si tratta di lavori su metallo, oggetti di design, progetti, manifesti, libri e cataloghi. Una selezione essenziale rispetto alla vastità del catalogo “militante” di quell’esperienza, ciononostante c’è quanto basta per intuire il tratto distintivo linguistico dell’opzione del “radical design”, un distillato estetico irripetibile che mostra in filigrana l’epopea storica che l’ha visto nascere.
Valga su tutto la rotoflessografia di Ettore Sottsass intitolata L’Altare, sorta di progetto grafico per un immaginifico monumento alle multinazionali in tutte le loro declinazioni possibili, sia economiche sia militari, dunque belliche a stelle e strisce. Il racconto visivo della “nuova frontiera” esistenziale delle comuni hippy, non per nulla il pezzo è datato 1974, ricorre invece nei multipli di Superstudio, fra Zabriskie Point e Degas rivisitato in funzione fotografica, sullo sfondo di un paesaggio che mostra l’Arizona o la California delle scorribande di Jack Kerouac e soci.
Si chiama invece Shiva, tornando a Ettore Sottsass, il vaso portafiori in ceramica rosa a forma di fallo stilizzato, forse l’Oscar per definizione di certa progettazione d’oggetti d’uso, la demitizzazione di un totem d’arredamento che prende altrove il semplice nome di soprammobile. Il vaso Shiva, datato 1971, in forma di convitato di pietra ha modo di figurare anche in un altro multiplo cartaceo che riproduce fotograficamen- te un’assemblea, o forse un tribunale del popolo, presieduto dalle guardie rosse cinesi nel tempo dei “cento fiori” di Mao.
Come ulteriore conferma di una volontà di trasgressione d’ogni simbolico. Ecco così spiegato il nome di quella stagione, radicale appunto. La militanza radical chic a Roma, nel migliore dei casi, si riassume in un soprammobile.
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