DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Maurizio Porro per “La Lettura – Corriere della Sera”
Certo che se la ricorda la sera in cui prese l'Oscar, Gabriele Salvatores. Ma a 26 anni di distanza le prospettive cambiano, lui fa parte dell'Academy anche se non ha mai esercitato il diritto di voto. Era il 30 marzo 1992, al Dorothy Chandler Pavilion presentava il comico pop Billy Crystal e il regista non aveva alcuna intenzione di vincere, come del resto alcuni dei suoi produttori: Mario Cecchi Gori (restò il più lungimirante figlio Vittorio) e i manager della Penta erano già tornati in Italia.
GABRIELE SALVATORES NEL 1992 CON L OSCAR PER MEDITERRANEO
Restò Gianni Minervini, che era l'anima del film, pur sapendo che sul palco sarebbe salito solo Gabriele: «Regola tassativa: per il film straniero la statuetta la ritira il regista». E Gabriele la ritirò «anche se era solo il mio terzo film ad avere una certa visibilità. Poi tentai di dire qualcosa per la pace, ma mi portarono via di peso perché non si poteva parlare di politica. Ma di pace? Appunto...».
Il ragazzo quarantaduenne napoletano-milanese era piombato a Hollywood dallo sperduto villaggio messicano in cui girava Puerto Escondido e dove ritornò il mattino dopo il premio: «Se vai in un posto improbabile che si chiama Saint Louis de Potosi, terra di peyote, vedrai nei bar almeno cento foto con i campesinos che festeggiano con in mano il mio Oscar. Furono molto orgogliosi».
Questa statuetta si porta un curriculum di meraviglia.
«Anche la hostess in aeroporto quando la intravide in valigia iniziò con una serie di "Oh my God!" facendoci subito cambiare posto e portandoci champagne».
Per il giovane Gabriele, che veniva dal teatro off di Milano, dal palcoscenico ribelle dell'Elfo, l'Oscar era una cosa lontana, mitica, stava altrove in tutti i sensi.
GABRIELE SALVATORES NEL 1992 CON L OSCAR PER MEDITERRANEO
«Vuoi la verità? L' avevamo preso sottogamba, non c'era stata alcuna promozione preventiva: che ci andiamo a fare? Era quasi imbarazzante pensare di vincerlo e non sentivo di appartenere a quel mondo. I premi fanno sempre piacere, ovvio, ma questo aveva il senso di un oltraggio, era l'establishment, noi eravamo giovani. L'Oscar aveva una carica leggendaria che Marlon Brando una sera aveva sfatato...».
Ma il 1992 fu un'annata diversa, si veniva dal trionfo nel 1991 del neo western di Kevin Kostner Balla coi lupi. Il silenzio degli innocenti, thriller al sangue di Jonathan Demme col cannibale Anthony Hopkins e Jodie Foster, senza happy end, si portò a casa cinque Oscar e oltre a Salvatores vinse anche Pietro Scalia, per il montaggio di JFK.
«Mediterraneo si è inserito in quel momento particolare. Ma sul film straniero tutti puntavano su Lanterne rosse di Zhang Yimou, e il suo autore aveva maledettamente bisogno di quel riconoscimento per essere sdoganato dai poteri cinesi. Lo incontrai dopo, io uscivo dal bagno con l'Oscar, lui ci entrava furibondo e mi disse una cosa in cinese che per fortuna non capii.
Ma un sospetto che magari ce l'avrei fatta l'ebbi alle conferenze stampa, capii che del film cinese non avevano capito nulla, credevano fosse un documentario sull'architettura, le tegole. Del resto ricordo Clint Eastwood che disse in giuria a Cannes su Caro diario che pensava fosse un documentario su un regista italiano scomparso. Aggiungi che Mediterraneo è un film che mescola molti generi, non si capisce se è guerra, erotico, commedia e per gli americani era un azzardo».
Massimo Troisi e la telecinesi
Salvatores fa parte di quella ristretta schiera di autori italiani che ce l'hanno fatta. Prima i grandissimi (Vittorio De Sica, Federico Fellini), poi Elio Petri e infine i golden boy come Giuseppe Tornatore, Roberto Benigni e da ultimo Paolo Sorrentino. «Gli americani hanno bisogno di film in cui l'Italia, specie quella del passato che prediligono, sia molto riconoscibile, in cui ci sia una precisa segnaletica, altrimenti vanno in confusione».
Memorie di quel tempo perduto?
«Una foto collettiva con Massimo Troisi con l'Oscar in mano, vestito di bianco, che cercava finanziatori per Il postino e ci eravamo ripromessi di girare un film insieme; la cena con i premiati in cui ero vicino a Hopkins e chiacchierammo tutto il tempo di teatro, di come interpretava Shakespeare e Brecht, fu magnifico a spiegarmi come si era addestrato a esprimere il Male; l'altra grandissima esperienza fu che l'Academy ti regala un incontro con un membro della giuria a scelta e io volli conoscere il mio preferito Billy Wilder. Nello spazio di un pranzo mi insegnò mille cose, lodò Tutti a casa, in riferimento al mio film, e per fortuna parlava in francese».
È una strana sensazione che resta, ricorda Gabriele: «Ti consegnano l'Oscar in mano senza scatola, tieni la letterina della vittoria perché non si sa mai. Comunque il mio film fu poi preso in distribuzione dalla Miramax e quindi anche io fui invitato, senza molestie, in camera da Harvey Weinstein che era sul letto, posso confermare, ma in smoking. Mi disse: "Hai fatto un bel film, mi sa che lo compro, ma voglio tagliare quattro minuti all'inizio. Sei d' accordo"? Io dissi: "Altrimenti?". "Li taglio lo stesso". Fui d' accordo».
Una serata che non scorderà mai. «Sicuro. Anche con un lato pochade. Mi ero appena messo con Rita, che era la moglie di Diego Abatantuono. Quando, dopo la cerimonia, la vedemmo arrivare di corsa al brindisi inseguita dai body guard, all'unisono noi due esclamammo: "Fermi, è mia moglie". Poi ci guardammo: "È nostra moglie"».
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