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Aldo Grasso per Corriere.it
Ho letto con attenzione frammista a stupore un articolo di Roberto Saviano sui talk show, apparso sull'Espresso. Non voglio discutere le tesi generali, esposte in verità con discreta confusione: un po' perché sono ormai opinioni condivise («In questo cataclisma bipartisan una cosa è fin troppo chiara a chi fa televisione e a chi la fruisce o la subisce: o sei in tv o non sei»), e un po' perché sono posizioni ideologiche («Per vent'anni, per tutta l'epoca berlusconiana, i talk show hanno plasmato, condizionato l'opinione pubblica, in un circolo vizioso»).
C'è un punto però che mi ha molto colpito. Nel dispiacersi che la comunicazione politica sia divenuta autoreferenziale (a onor del vero, questo è un vizio pre-berlusconiano, proprio del medium), Saviano stigmatizza i salotti patinati e se la prende con il conduttore: «Il talk show in questi anni è stato il suo conduttore, una figura mediana tra pubblico e ospiti, il rappresentante diretto del telespettatore che dal divano, attraverso un transfer catodico, credeva di poter interagire con il personaggio del momento, di poterne condizionare le azioni, restando quasi sempre con l'amaro in bocca, con la sensazione terribile di aver assistito a una performance senza lieto fine, anzi senza alcun finale».
E il buon Fabio Fazio dove lo mettiamo? Sarà contento di tanta ingratitudine? Il successo di Saviano in tv è dovuto in gran parte alla mediazione di Fazio. Saviano non è un affabulatore alla Marco Paolini, la sua comunicazione si basa più sui contenuti che sulla forma, ragion per cui il format che gli ha creato intorno Fazio è perfetto. Senza Fazio, Saviano non potrebbe, non saprebbe fare tv.
E allora cosa significa una frase come questa: «Oggi, i social network, Twitter in particolare, consentono un'interazione diretta, senza mediazione alcuna, ed è per questo che il conduttore è diventato un filtro inessenziale. E l'elemento di manipolazione, insito nel suo ruolo, viene fuori in maniera evidente e grottesca»?
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