DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Estratto dell'articolo di Pietrangelo Buttafuoco per il “Corriere della Sera”
carmelo bene visto da claudio abate
Bene è quel che finisce bene. All’s well, per dirla con Shakespeare. E figurarsi quanto ne viene di bene arrivando a Bene.
Eccolo il dire del significante finalmente libero da ogni significato: Si può solo dire nulla . Un manufatto di oltre 1.700 pagine, il definitivo prontuario delle interviste di Carmelo Bene — che è il vertice culturale italiano del XX secolo — in un volume edito da il Saggiatore a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig intriso di magnificenza postuma.
Un librone che come I Ching , come il Canzoniere di Hafez, e come lo Zarathustra si può aprire a caso e trovarvi di volta in volta, sfogliandolo, il sé che manca, l’irrapresentabile.
Ognuno cerca quel che non ha, ciascuno è ciò che non è e la mancanza di Dio è «un grande e stupendo funerale».
carmelo bene cover il saggiatore
L’irrapresentabile è l’indicibile e se l’Italia del suo tempo lo contiene — e il mondo di elevata cultura, da Parigi a Mosca, lo sostiene — Carmelo che nasce enfant terrible e muore enfant terrible oggi non avrebbe diritto di stare nella scena pubblica.
Non avrebbe — con rispetto parlando — l’audience di un Lino Guanciale, nessuna professoressa oserebbe ammirarlo e un’Anna Foglietta si guarderebbe dal recitare con un ceffo così smisuratamente sessista, dunque antifemminista, un tipaccio disgustato dall’impegno, dalla dialettica del materialismo e dalla contemporaneità.
Un suo solo urto — «bisogna essere contemporanei a tutti i secoli» come intima ai cronisti — già lo candida alla mannaia della imperante cancel culture .
E l’uomo è, infatti, un malinteso. L’incomprensione è il suo pane quotidiano: «In democrazia il popolo è preso a calci dal popolo per conto del popolo».
carmelo bene visto da claudio abate 2
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Nel solco dell’abbagliante puntata di «Mixer Cultura» di Giovanni Minoli con Franco Bagnasco su Rai2, con Carmelo Bene è sempre — come da canone collaudato poi al Costanzo Show — un uno contro tutti. Ed è un rivendicare, il suo, oltre il «concerto dello sconcerto». L’essersi sempre battuto contro il giornalismo «in quanto informazione, essendo l’informazione inquinamento e minimizzazione di una più vasta cultura» lo destina alla non-storia. Così parla e non c’è da comprenderlo bensì — è la sempre valida regola con cui ci si regola con lui — c’è da dargliela sempre per intesa: «Io sono già dimenticato», confessa a Giancarlo Dotto, «meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere per meritare la dimenticanza».
Così si fa con lui che non copia la realtà ma sa sempre come penetrare il mistero. Lo spiega bene a Dotto, che è il suo alter ego, e lo svela al meglio — fuor di metafora calcistica — a Giampiero Mughini quando poi con lo sport capovolge i codici del significante: «Se uno vuole vedere un balletto lo trova in un incontro di Cassius Clay, non va alla Scala».
Il poeta giammai recita, piuttosto canta la dicibilità che resta invisibile. E la sua densa produzione teorica — generosamente elargita nel flusso delle interviste — lo conferma lirico nel suo essere inaudito. È Carmelo Bene ma è come se i Dino Campana — o gli Hölderlin, ma anche i Leopardi — avessero potuto beneficiare di un minimo tecnico per essere illuminati, amplificati e registrati. E raccontati nel disincanto del disbrigo promozionale di spettacoli, eventi e — da postumi — collezionati. L’epica di Carmelo Bene — e l’archivio giornalistico lo conferma — coincide con la sua stagione di Direttore della Sezione Teatro della Biennale di Venezia. Tutto un tramestio di idee, progetti, visioni e architetture che risulta oggi chimerico senza più lui, senza uno come lui, senza più il suo dire niente, il suo sontuoso teatro senza spettacolo.
Quel che più si ammira in teatro — si sa — è il lampadario.
Con attori al più in prossimità con Bertold Brecht, tutti simil Roberto Benigni e non — ahinoi — dei Gianni Santuccio, ci si accomoda in sala e col naso in su s’arpiona l’unico effetto speciale.
«Tempo due anni e nessuno più andrà a teatro» dice Bene a Marco Palladini in un’intervista a «Paese Sera». Corre l’anno 1988 e così, a maggior ragione, senza più lui in questa vita che — a suo dire — è «forse il più grande attore dai Greci in poi», il teatro di rappresentazione e spettacolo è tutto un buio da ferire a colpi di candele. Solo con chi s’è estromesso dall’ordinario per essere straordinario, soltanto con chi ben oltre il corpo, ben oltre la scena — in nuda voce — con chi ben Bene che sia è puro genio, il teatro è un esistere senza esistenza. Parigi vale Cesena quando è in scena, un 110 e lode all’ombra della Tour Eiffel lo lascia indifferente — «eccettuati alcuni consensi di certi personaggi che si chiamano Deleuze, Lacan, Foucault, Klossowski, Mandiargues» — e figurarsi quanto può impressionarlo ricevere le grandi firme in camerino se altra pratica non conosce che l’autoinganno, l’incommentabile, l’intoccabile, «l’eterno una volta per tutte».
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