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Andrea Silenzi per la Repubblica – Estratti
Senta Caputo, ma il peggio non sembrava essere passato?
«Quel “sembra” lasciava aperta una finestra. Il fatto è che il peggio non passa, un momento come questo, tra guerre e altro, non l’avevo mai visto da quando sono nato».
Sergio Caputo, classe 1954, sembrava un po’ sparito dai radar. Un clamoroso successo nel 1983 con l’album Un sabato italiano, con lo swing che prendeva il posto dell’elettronica e della new wave. Poi, stufo della discografia, ha cominciato a lavorare da indipendente. Adesso torna con un nuovo singolo, Sono uno spirito libero, e per i 40 anni di Un sabato italiano torna sul palco con una big band per tre concerti: il 25 marzo a Milano, il 13 aprile a Roma e il 17 aprile a Torino.
Il nuovo singolo “Sono uno spirito libero” ribadisce la sua insofferenza verso gli schemi. Più volte ha detto che non amava la rigidità di pensiero e il clima degli anni Settanta. Però ha iniziato al Folkstudio.
«Il clima di quegli anni lo trovavo noiosissimo: da noi si ascoltava la musica cilena, in Inghilterra e negli Usa c’erano le cose più belle di sempre. Andavo al Folkstudio e mi chiedevo perché nessuno scrivesse più canzoni alla Cole Porter o alla Duke Ellington. Nel 1981 era uscito Jumpin’ Jive di Joe Jackson, che mi fece capire che si poteva fare. Il mio nuovo tour ricalca proprio quella formazione, quel tipo di suono».
Andò tutto liscio?
«Non pensavo di diventare un professionista. Fui notato da Mr.Fantasy, il programma musicale di Paolo Giaccio e Carlo Massarini. A quel punto mi sono buttato sulla canzone jazz: il progetto interessò la Cgd, etichetta in cui lavorava Caterina Caselli. Si fidarono di Nanni Ricordi, il padre del grande cantautorato italiano, che era il mio produttore: ascoltarono il disco solo alla presentazione e rimasero scioccati. Ma ormai era andata».
Ai tempi di “Un sabato italiano” era un pubblicitario dalla vita piuttosto spericolata.
«La cosa che mi spingeva a uscire la notte erano le donne. Nel lavoro ero molto apprezzato, mi avevano affidato anche campagne per grandi brand. Poi una mattina mi sono tagliato un dito mentre lavoravo e all’improvviso ho capito che la mia avventura pubblicitaria era finita. Ho dato le dimissioni, sono uscito dall’ufficio e sono partito verso l’ignoto».
Negli anni new wave e dell’elettronica il boom con un disco di swing. Un marziano.
«Molta gente mi considerava molto rockabilly, anche il mio look poteva ricordare quel tipo di artista. Il successo me lo spiegavo così, oltre al fatto che nessuno stava facendo quello che facevo io. Il panico arrivò quando mi chiesero di andare in tour: non avevo una band, ne misi insieme una. A quel punto ero entrato a pieno titolo nel business musicale».
In quelle prime canzoni, e in molte altre incise successivamente, c’era molto spazio per l’alcol. Bere era un problema?
«No, ma ho avuto un infarto nel 2012 e ho smesso con i superalcolici. Però amo il vino: ancora oggi a colpi di bicchieri posso stendere uno molto più grosso di me. Il vino mi stimola a scrivere, mi dà l’illusione di diventare più schietto, più sincero».
L’immagine che trasmetteva era quella di un uomo solo e un po’ vizioso. Ma è vero che quando portava a casa una donna la faceva cambiare per uscire la mattina?
«Le conoscevo nei locali, spesso erano vestite da sera e volevo evitare che dessero nell’occhio. Così prestavo loro delle cose che poi non mi venivano restituite. Ero arrivato al punto di andare a fare shopping nei mercatini perché non avevo più vestiti da prestare».
Ha vissuto anche un’esperienza di premorte.
«È stato un episodio anche un po’ comico. Era ottobre inoltrato, ero andato a trovare dei parenti al mare e ho deciso di fare il bagno. Mi sono accorto dopo che c’era troppa corrente, agitavo la mano come potevo e da terra mi salutavano. Poi sono finito sotto, hanno capito e dei bagnini che fortunatamente erano in vacanza mi hanno salvato. Mi sono visto fuori da me, poi ho sentito che rientravo nel mio corpo. Ma ho sfiorato parecchie volte la fine, un po’ per lo stile di vita un po’ per altri problemi di salute non pensavo di durare a lungo».
C’è una cosa che l’ha fatta sempre arrabbiare: il paragone con Fred Buscaglione.
«Perché lui era un grandissimo artista ma faceva una macchietta: parlava di personaggi che non erano lui, sparatorie finte: le mie erano tutte storie vere».
Dopo il boom del Sabato italiano si è dedicato totalmente al jazz. E ha suonato con dei giganti come Dizzie Gillespie. Che ricordi ha?
«Dizzie l’ho conosciuto all’aeroporto di Milano, andavo a New York, lui era andato a prendere Tony Scott che aveva suonato in Italiani mambo. Poi sono andato a sentirlo al Blue Note, ci siamo salutati, e ha accettato di suonare pezzi miei, a patto che gli piacessero. Abbiamo registrato un brano a Bologna e uno a Barcellona, sempre a notte fonda, dopo i suoi concerti. Lui era un mattacchione, non capivi mai se fosse sincero o no. Ma io ho avuto la sensazione di essergli simpatico. Ricordo una sera a cena a Milano: era affamatissimo e divorò qualsiasi cosa».
È andato a vivere prima negli Usa e adesso è in Francia. Colpa dell’Italia o c’è altro?
«Vivo più serenamente dove non sono conosciuto, anche per la privacy dei miei figli. La Francia è un Paese molto solido, laico, c’è multirazzialità e multiculturalismo. In Italia siamo un po’ indietro».
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