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Prefazione di Vittorio Sgarbi al libro di Mauro Masi e Carlo Vulpio, "Un nemico alla Rai" (Marsilio), in libreria nei prossimi giorni.
Mauro Masi è un uomo intelligente e vanitoso. Il primo Direttore Generale della Rai politico in quanto tecnico. Attecchiva nei dintorni di Palazzo Chigi, chiamato dall'uno e dall'altro Governo. In quelle stanze si conservava intatto, non prendendo colore, ma elargendo conoscenza ed esperienza.
Con questa immagine candida arriva a viale Mazzini, e lì soltanto, senza cambiare consuetudini, inizia ad abbronzarsi e a prendere colore, diventando più e meglio di ogni altro il Direttore Generale non del Governo ma del Governo Berlusconi, mutuandone, con perfetta e tecnica convinzione, i nemici, primo fra tutti Santoro.
Bastò esporsi ai raggi dardeggianti di quello per diventare nero. Così Masi perse la sua verginità e divenne «il peggiore Direttore Generale di tutti i tempi» senza fare altro che cercare di restituire alla Rai una condizione di distacco dalla incandescente materia politica che la voleva, per assolvere la funzione di pubblico servizio, faziosa.
L'obiettivo che si era dato Masi era di ristabilire l'equilibrio, davanti all'evidenza contraria. Ma il solo tentativo veniva interpretato come intelligenza con il nemico.
Ha vissuto la fase terminale di questa mutazione antropologica un giornalista di sinistra, particolarmente fazioso e pregiudizialmente schierato con i magistrati d'assalto come Luigi De Magistris, con il suo orecchio Gioacchino Genchi, e con il rustico Di Pietro.
Naturalmente per chi aveva visto Masi nel corso di un anno intento alla titanica operazione di riequilibrio dell'informazione, il pregiudizio era inevitabile, e di conseguenza, il giudizio negativo sicuro.
Poi iniziarono i giorni del tentativo disperato, e poi fallito, di fare una trasmissione che, ispirata all'Italia, nella sua storia, nella sua tradizione, nella sua cultura, nel suo paesaggio, potesse prescindere da Berlusconi, e perciò stesso non essere antiberlusconiana (con ciò, come osservò Tonino Guerra, condannandosi al fallimento).
Carlo Vulpio fu chiamato da me a interpretare il suo sdegno e la sua rabbia da radicale ma anche da candidato dell'Italia dei Valori, contro lo stupro del paesaggio, vissuto direttamente nella sua Puglia.
Lo sentii in una invettiva così accorata da considerare, al paragone, il Travaglio usato un petulante chierichetto.
Mi convinse Vulpio. Mi sembrò più importante utilizzare uno spazio televisivo per consacrare la bellezza del paesaggio minacciato con le testimonianze di Leo Longanesi e Pier Paolo Pasolini, di Guido Ceronetti, di Carlo Petrini, che discutere di escort e di conflitto di interessi, in un vertinginoso parossismo.
Ma cosa può importare a Santoro lo stupro di Lucera, di Troia, di Sant'Agata, in Puglia o di Salemi, di Mazara o di Marsala, in Sicilia, rispetto all'inutile e fuorviante vaniloquio di Ciancimino?
Masi mi ascoltava, mostrava di aver capito. E il sospettoso Vulpio, dopo la prima diffidenza, doveva prenderne atto. E osservare l'impresa disperata di un Direttore che voleva credere di potere restituire alla televisione di Stato, oltre alla pluralità delle voci, anche lo spazio alle parole e alle immagini di un'Italia della poesia e della bellezza, non solo delle polemiche e delle costose ironie di Benigni e di Saviano.
C'era un'altra Italia da mostrare. E nessuno come Vulpio, partito da posizioni antagoniste, poteva riconoscerlo nello sforzo di un uomo intelligente e vanitoso che assumeva un volto politico per non voler cedere ai luoghi comuni e alla demagogia.
Un Don Chisciotte travestito da Don Giovanni o da Zorro dentro una Rai di impiegati paurosi e costretti ad accettare l'egemonia del pensiero unico, con qualche superstite isola di maggioranza silenziosa. Silenziosa, appunto.
Nessuno spazio per chi - non fossero i sopravvissuti di una televisione spazzatura come Ferrara e Sgarbi (estremo alibi di un riequilibrio impossibile) - tentasse strade diverse, provasse a sottrarsi al confronto con Berlusconi e con la sua centralità negativa, come Augusto Minzolini, massacrato per gli stessi rimborsi che qualunque Presidente, Direttore Generale o di Rete, ha sempre utilizzato, senza essere accusato di peculato per spese di viaggio e di rappresentanza inferiori ai 5 mila euro al mese. Troppi? E cosa avranno speso Riotta, Anselmi, Borrelli, Sorgi, Longhi? In che cosa saranno stati più liberi e fantasiosi, e magari più conformisti?
Anche Minzolini, per non essere stato antiberlusconiano, è diventato «il peggiore Direttore di Telegiornale di tutti i tempi». Ha assunto un profilo politico che nessuno si era permesso di rimproverare (nella indiscutibile simmetrica evidenza) a Riotta o a Lerner.
Dunque, nulla contamina di più che prestare servizio alla Rai senza essere contro Berlusconi.
Vulpio, nella condizione privilegiata di autore, di frequentatore e poi di amico di Masi, lo ha verificato con i propri occhi. Ha visto ogni azione di Masi travisata e interpretata in un modo diverso da come l'aveva vissuta. E ha voluto raccontare questa storia. Ha voluto descrivere la trasformazione di un uomo attraverso un processo di autocoscienza, una confessione, un interrogatorio.
Qui ne leggiamo i risultati, ne abbiamo il referto, gli atti di un processo compiuto in un tribunale laico, con una sentenza già segnata.
Occorreva che degli accadimenti di quei giorni, e delle sensazioni di quell'osservatore, restasse un memoriale. Preciso, argomentato, allibito.
Eccone la trascrizione.
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