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Silvia Nucini per Vanity Fair
Un giorno della mia terza media, rivestendomi dopo la lezione di pallavolo del pomeriggio, mi sono ritrovata nella scarpa un bigliettino. C'era scritto: «Sei una stronza». Ci sono rimasta male, ma ho anche subito capito chi poteva essere il mittente: qualcuno con una penna lilla, che sulle «i» invece dei puntini faceva dei pallini, qualcuno che finiva pallavolo quando io la iniziavo, qualcuno a cui, indubbiamente, non stavo troppo simpatica. Simona Invernizzi, insomma.
Il punto non è quanto io fossi sagace o quanto Simona Invernizzi fosse stata ingenua a non usare nemmeno una Bic nera, il punto è che questo piccolo scandalo si era consumato in uno spazio ristretto. Quello fisico della mia scarpa e quello mentale di una comunità microscopica: uno spazio in cui l'anonimato - a prescindere dallo smascheramento - aveva le gambe corte e non faceva poi così paura.
Qualche mese fa mia figlia, quattordicenne, mi ha comunicato di essere su Ask, «un social network dove si fanno domande», mi aveva spiegato. Non ho pensato a dibattiti sui grandi temi della vita, naturalmente, ma siccome aveva dimenticato di dirmi che le domande si possono fare anche in forma anonima, non avevo immaginato quello che avrei trovato poi, qualche tempo dopo, quando mi sono fatta un account e semplicemente per questo - non c'è richiesta di amicizia, accettazione, following eccetera - ho potuto accedere alle bacheche di chiunque mi venisse in mente di cercare, leggere domande e risposte.
Risalendo di domanda in domanda sono approdata per caso anche alla pagina della figlia di due famosissimi personaggi dello spettacolo. La sua identità è chiara e identificabile (a parte il nome, posta talvolta dei video di risposta, in uno a un certo punto entra nella stanza anche la madre), mentre la maggior parte di quelli che le fanno le domande sono anonimi.
«Perché tua madre è così figa e tu sei così cessa?», «I tuoi possono essere qualcuno, ma tu no davvero, tiratela di meno», «Che brutta cosa avere fratelli da genitori diversi», «Non sei nessuno e te la tiri abbestia. Ma come cazzo stai messa? Spala la merda, stronza», «La figlia di Michael Jackson si è tagliata le vene, pensi di farlo anche tu?». Lei, che è dotata di una buona dose di ironia e forse anche di un po' di callo all'invidia degli altri, trova per tutti una risposta puntuale («Tuo padre sforna figli a manetta», dice un anonimo.
E lei: «Tu invece stronzate, ognuno ha il suo talento»), ma ha 16 anni e viene da chiedersi, per lei come per gli altri 70 milioni di iscritti, la metà dei quali minorenni, se non sia, al di là delle reazioni brillanti, anche faticoso parare continuamente colpi.
La lite ai giardinetti
I messaggi violenti e offensivi non sono infatti destinati solo a chi ha cognomi noti: una ricerca condotta dai ricercatori di Uclan (University of Central Lancashire) rivela che il 38 per cento delle ragazze inglesi utenti di Ask ha ricevuto messaggi anonimi che le hanno spaventate.
A parte le domande generiche che il sistema quotidianamente invia a tutti gli utenti - «Quando termina la giovinezza?», è quella che mi è appena arrivata - alcune delle quali allo scopo di raccogliere informazioni sui consumi («Dove fai shopping più spesso?», era quella di ieri), una buona parte delle cose che si chiedono ha a che fare con il sesso, l'intimità , i sentimenti e anche la violenza: qualche giorno fa a Bologna 250 ragazzi, divisi in due diverse fazioni, sono passati dal virtuale al reale dandosele di santa ragione ai giardini Margherita. Il culmine di una diatriba nata su Ask.
Le risposte collezionano like, come gli stati di Facebook, «Per ottenere like la gente si inventa qualsiasi cosa. Non so di quante mamme morte, anoressie e tagli sulle braccia ho letto da quando mi sono iscritta. Sembra che fare pena sia una cosa che va molto», dice Anna, 15 anni, sul social network da qualche mese, e all'insaputa dei genitori. Le storie tristi attirano l'attenzione così come il racconto delle esperienze sessuali: su Ask non c'è nessun vero controllo dei contenuti.
L'azienda in passato ha dichiarato che ci sono 50 persone preposte alla moderazione. Ma le interazioni sono circa 30 milioni ogni giorno, in 150 lingue diverse.
Come dire che nessuno legge quello che viene scritto e che, anche se successivamente lo si cancella, rimarrà da qualche parte per sempre.
Una sedicenne - con nome, cognome, città e foto - alla domanda «Cosa facevi tre ore fa?» risponde: «Tanti pxxxxxxxi al mio ragazzo, la prossima volta mi faccio un video». Ha raccolto 250 like.
Spesso le domande anonime e provocatorie danno il la a un'escalation che si può definire forse divertente per i primi due scambi, poi diventa svilente per tutti. E, immagino, portatrice di dubbi sugli amici, i compagni di scuola: chi c'è dietro questo anonimo che mi chiede cose così precise e dolorose? Chi ha tradito le mie confidenze? Il pettegolezzo, il dileggio, la delazione e il bullismo esistono da prima di Ask, solo che prima dell'opzione «anonimo» era più facile dare i contorni alle cose, distinguere il bene e il male, capire chi ci voleva l'uno o l'altro.
Ask nasce tre anni fa ad opera di due fratelli lettoni, Ilja, 35 anni, e Mark Terebin, 29, che, grazie ai soldi di papà Oleg, un ex ufficiale dell'Armata rossa, mettono in piedi il social network - sede legale in Lettonia, indirizzo Web in Micronesia - copiando Formspring, un social americano basato sull'interazione domande-risposte.
Carini, ben vestiti e ormai più ricchi del padre (il sito gli procura entrate per quasi 6 milioni di euro l'anno), hanno la fama di playboy e festaioli e non sembrano preoccuparsi troppo di quel che succede sulla loro creatura, che definiscono «un mezzo di comunicazione, esattamente come ogni altro social network, un telefono, un pezzo di carta e una penna».
Incapaci - o indifferenti - alle pubbliche relazioni hanno detto cose particolarmente infelici dopo i casi di suicidio di teenager (almeno quattro, l'ultimo è quello di Hannah Smith, vedi a pag. 154) legati al bullismo su Ask. Come: «Succede solo agli inglesi». E anche: «I ragazzini sono lasciati soli da genitori che hanno altro da fare: guardare la Tv, bere birra e leggere i tabloid». Ma anche qualcosa di sensato: «Se i genitori sapessero di cosa parlano i loro figli avrebbero paura. Lo fanno su Ask, alla luce del sole».
Domande senza risposta
Ho chiesto ai fratelli Terebin un'intervista. Mi ha risposto Ross Hall, direttore della comunicazione della FTI Consulting, azienda di consulenza internazionale che cura i loro rapporti con i media. Mi è stato detto che l'intervista era impossibile, di mandare delle domande a cui qualcuno avrebbe risposto. Ne ho mandate molte, mi è tornato indietro un comunicato che dice:
«Ask ha fatto diversi passi per migliorare sul fronte della sicurezza, grazie alla consulenza di un insigne specialista nella protezione dell'infanzia. Ci impegniamo a proseguire su questa strada. Invitiamo i ragazzi a utilizzare la funzione "segnala notizia", ora molto più visibile, ogni volta che si trovino di fronte a una domanda che, per qualsiasi ragione, li mette a disagio. E di parlarne con i genitori o con adulti a loro vicini. Ogni segnalazione di questo tipo verrà trattata in modo prioritario».
Un cambio di direzione dettato dal crollo d'immagine del sito e dal fatto che alcuni marchi importanti (tra cui, ironia della sorte, Save the Children, che però ha dichiarato che non sapeva di avere banner pubblicitari su Ask) hanno smesso di investire sul social network.
Qualcuno ha scritto che i ragazzini amano Ask perché l'adolescenza è il momento in cui hai solo domande e nessuna risposta, il che è vero e anche suggestivo, se non che si prendono le misure con la vita e si cresce davvero solo in un modo che non è una metafora: mettendoci la faccia.
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