DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Alessandro Gnocchi per "il Giornale"
«Io ho inventato la industria discografica». «L'America nera l'ho messa io in tutte le case. Non Sidney Poitier che era la versione nera dell'uomo bianco». «La prima volta che un uomo ti ha toccato, la canzone in sottofondo era mia». Parole del più importante produttore discografico di tutti i tempi, attualmente in carcere a Corcoran, in California, per omicidio di secondo grado. Sarà libero nel 2028.
L'incredibile storia di Phil Spector, ora raccontata in un atipico biopic in onda domani su SkyCinema 1, inizia nel Bronx di New York, anno 1939. Phil non ha ancora dieci anni quando il padre si suicida e costringe la famiglia a trasferirsi a Los Angeles. Sul finire degli anni Cinquanta, Spector ha un breve periodo di successo con la band dei Teddy Bears, poi si orienta verso lo studio di registrazione.
Apre la Philles, la sua etichetta, e inventa uno stile, il Wall of Sound, il muro del suono, denso, stratificato, imponente, da ascoltare in mono. Spector porta al successo gruppi di sua invenzione, spesso di sole ragazze. Incide una hit via l'altra con le Ronettes, i Righteous Brothers e una miriade di gruppi fantoccio. «Nessuno poteva fare un singolo sopra i due minuti, io feci You've Lost That Lovin' Feeling che era di quattro minuti. Feci scrivere sulle etichette che durava tre minuti secchi. Tutti diventarono ricchi».
Tra i suoi clienti, ci saranno poi i Beatles (Let It Be), John Lennon (Plastic Ono Band e Imagine), George Harrison (All Things Must Pass), Ike e Tina Turner, i Ramones negli anni Ottanta.
Con la fama, cresce il mito dell'uomo bizzarro, innamorato di Lawrence d'Arabia e delle armi da fuoco, con le quali minaccia i musicisti, arrivando a sparare per aria in studio. Negli anni Settanta si schianta in auto, si salva per miracolo ma si risveglia con 300 punti di sutura sul volto e altrettanti sulla nuca. Da quel momento, secondo il suo biografo Dave Thompson, Spector diventa davvero strano. Ossessionato dalla privacy, soffre di psicosi, i farmaci gli impediscono di suonare, la gente inizia a girare alla larga. Anche il successo sembra abbandonarlo (mai del tutto).
Ed eccoci al 3 febbraio 2003. Il film scritto e diretto da David Mamet, con uno strepitoso Al Pacino nei panni di Spector, inizia qua. La modella Lana Clarkson viene trovata morta in casa del produttore. L'autista di Spector dice di averlo sentito urlare: «Credo di aver ucciso qualcuno». La polizia lo accusa di omicidio, lui parla di suicidio accidentale. La ragazza, rimorchiata poco prima al bar, si sarebbe puntata la pistola in bocca per provocarlo, Spector avrebbe gridato: «No, è carica». Lei, spaventata, si sarebbe sparata per errore.
Non c'è un cane disposto a credergli. Saltano fuori altre cinque donne che raccontano di essere state minacciate da Spector con armi da fuoco. Eppure i conti, in tribunale, non tornano. La balistica lo scagiona. Spector avrebbe dovuto essere coperto di sangue, ma i suoi vestiti sono quasi puliti. L'autista non è credibile, all'epoca parlava a stento l'inglese. La vittima era conosciuta per le manie esibizioniste e le tendenze suicide. Al primo processo, Spector se la cava. Al secondo giro, nel 2009, è condannato a 19 anni di carcere.
Il film di Mamet si prende il rischio di essere apertamente innocentista: troppe star, Michael Jackson e O.J. Simpson in testa, l'hanno fatta franca. Ma l'aria sta cambiando, come lo stesso O.J. Simpson avrà modo di verificare nel 2008 (33 anni di galera per rapina a mano armata e rapimento, dopo aver schivato la condanna per l'omicidio della ex moglie). Spector, che non è simpatico, è il capro espiatorio perfetto. Come dice Spector-Pacino: «I buoni muoiono giovani, io sono ancora vivo e devo pagare per essere il più grande produttore musicale della storia».
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