SCANDALO ALL’OPERA - LO STUPRO NEL “GUGLIELMO TELL” SCUOTE LONDRA - MICHIELETTO SI DIFENDE: “NON CAMBIO NULLA NELLE REPLICHE. LE OPERE SONO STORIE ESTREME. NELL’ORIGINALE DI SCHILLER, A UN CONGIURATO CAVANO GLI OCCHI: DI COSA PARLIAMO?”

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”

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«Tutto questo è offensivo», è sbottato l’altra sera uno spettatore uscendo dalla sala. Il Guglielmo Tell di Rossini diretto da Antonio Pappano e allestito da Damiano Michieletto, il quarantenne regista italiano più richiesto all’estero (è stato invitato tre anni di seguito a Salisburgo, dove un nome italiano mancava dal 1999), scuote la Royal Opera House.

 

La scena choc, non cantata, è lo stupro di una donna (per le repliche il teatro londinese avviserà il pubblico di ciò che avverrà sul palco) da parte degli ufficiali asburgici durante l’occupazione militare del villaggio svizzero.

 

Una scena cruda, alla donna puntano il revolver nelle parti intime, poi al banchetto viene accerchiata dagli ufficiali, una violenza di gruppo, lei giace sulla tavola, si dimena, grida, finirà nuda avvolta nel lenzuolo. Il teatro sembrava inghiottito da fischi e imprecazioni.

 

Michieletto, se l’aspettava?

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«Sinceramente no, non avevo mai lavorato a Londra, non conosco il suo pubblico. Hanno gridato anche durante la musica, non mi aspettavo una reazione così forte. Ma sono stupito anche dai siti inglesi, che parlano solo di quel nudo in scena, dura dieci secondi in un’opera di quasi quattro ore. Ho mostrato la tenerezza, il sogno, la speranza nel figlio di Tell; la sofferenza del padre; la catarsi finale…».

 

Il direttore del teatro Kasper Holten e il coprotagonista John Osborne in un’agenzia di stampa hanno preso le distanze.

«A me Holten ha detto: grazie per aver rinnovato il gusto del pubblico. Ho sentito anzi un grande supporto del teatro, alla prova generale nessuno ha sollevato dubbi, l’opera è un lavoro collettivo che va condiviso, poi mi prendo io tutte le responsabilità. Quella scena non è mai stata in discussione, ho solo amplificato ciò che dice la storia. Non cambierò nulla nelle repliche».

 

Non è strano essere il regista più richiesto e discusso?

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«Essere buato non fa piacere, soprattutto dopo che hai lavorato come un pazzo per un mese e mezzo. Ho presentato uno spettacolo forte, coinvolgendo il pubblico, che deve essere disgustato nel momento in cui deve esserlo dalla violenza di chi sta occupando il tuo Paese.

 

Mi piacerebbe incontrare la gente di Londra per spiegarmi, io sono convinto del mio lavoro. Se a uno viene in mente di mettere una mela sopra la testa di tuo figlio, col rischio di ucciderlo, cos’è se non un cinico e un perverso? Le opere sono storie estreme. Nell’originale di Schiller, a un congiurato cavano gli occhi: di cosa stiamo parlando?».

 

Lei farà la regia all’apertura della Scala nel 2017. Se le chiedessero di ammorbidire il suo gusto?

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«Non ci sono alternative, se non puoi essere te stesso, cosa vuoi essere al mondo? Magari un teatro può non chiamarti più, ma un artista deve poter usare il suo linguaggio, prendendo dei rischi, a volte sbagliando. La cosa importante è restare se stessi».

 

Qual è il teatro più disponibile alle sue idee?

«Berlino è una città aperta alle contaminazioni. Mi chiede se il teatro si può rinnovare. Ma io non mi sento in battaglia. Sono stato applaudito alla Bohème , al Falstaff , al Trittico , al Barbiere . Invece un nudo per il Ratto dal Serraglio a Napoli ambientato in uno yacht non è stato capito, così come alla Scala Un ballo in maschera in campagna elettorale».

 

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Perché spera che un giorno non ci sia bisogno dei registi?

«I teatri vogliono nuove produzioni e io mi chiedo cosa ci sia dietro l’aggettivo “nuovo”. Vuoi l’innovazione, ma non è chiaro fino a che punto. Il teatro è raccontare una storia e io parto dal libretto, non sono un provocatore. Se non dialoghi col presente, come facevano i compositori, è inutile. L’opera funziona anche in forma di concerto, forse un giorno non ci sarà più bisogno di rivolgersi a un regista». 

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