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Marco Giusti per Dagospia
Svegliate il mondo dell’arte. Giacometti è tornato. Fortunatamente questo Final Portrait – L’arte di essere amici, diretto con grande eleganza e massima cura da Stanley Tucci al suo quinto film da regista, e interpretato magistralmente da Geoffrey Rush nel ruolo del celebre pittore svizzero italiano e da Arnie Hammer come James Lord, snobbissimo critico d’arte e letterato americano che nel settembre del 1964 si ritrova ostaggio per 18 giorni nell’atelier a Montmartre di Giacometti pronto a fargli il ritratto, non è un biopic sulla vita dell’artista, ma un viaggio molto familiare nella sua vita di tutti i giorni e nella sua testa mentre cerca di dar vita al ritratto del più giovane amico.
Viaggio che Tucci può ricostruire quasi alla perfezione grazie al libro-diario di quei giorni che lo stesso Lord scrisse nel 1965, A Giacometti Portrait, che riporta anche le foto dell’opera in lavorazione giorno per giorno, e ai filmati e alle interviste che negli anni ’60 vennero fatti a Giacometti prima della morte (gennaio 66), ricostruito davvero alla perfezione da Geoffrey Rush. Gli artisti, si sa, sono strani.
Così, più che passano i giorni, più che il malcapitato Lord si renderà conto della trappola nella quale è caduto, e del carattere particolare di Giacometti, ormai sessantenne, che vive tra due donne, la moglie stravagante, interpretata da Sylvie Testud, e l’amante mignotta Caroline, Clémence Poésy, sorvegliato amorosamente dal fratello Diego, un grande Tony Shalhoub, vecchio socio di Stanely Tucci come attore.
Ma si renderà anche conto, mentre da due giorni di impegno previsto stanno passando le settimane, che il percorso creativo di Giacometti, come quello di tanti altri veri artisti, è qualcosa di vivo, complesso e contraddittorio. E non prevede una fine definitiva dell’opera, è un processo che lo porta ciclicamente a azzerare tutto per ricostruire da zero.
Dentro c’è un rapporto non solo con chi ha davanti e a come lo vede, gli ripete più volte che sembra un bruto, un gangster e non riuscirà a traferire quello che vede sulla tela, ma c’è soprattutto un rapporto con la materia, con una pittura che lui compone come fosse scultura. Jean Genet, che ebbe con Giacometti un rapporto simile e anche più profondo di quello di Lord, descrive così, nel suo L’atelier d’Alberto Giacometti, 1967, come vedeva i suoi ritratti.
“Visti da una distanza di una ventina di metri, ogni ritratto è una piccola massa vitale, dura come un ciottolo, piena come un uovo, che potrebbe senza sforzo nutrire altri cento ritratti”. Questa idea della massa vitale, del ritratto che nutre altri ritratti, è ben presente e ben realizzato nel film di Stanley Tucci, che cerca di essere il più possibile fedele alla realtà descritta da Lord. E che si allarga, ovviamente, avendo ben presente l’esempio di un film simile, come La belle noiseuse di Jacques Rivette tratto da Il capolavoro sconosciuto di Balzac.
A Tucci non vuole fare un film su Giacometti, cosa troppo complessa da realizzare, quanto un film sul processo creativo che porta un artista come Giacometti a comporre questo particolare ultimo ritratto. Lo fa, magari, in maniera un po’ timida, molto attento a non commettere errori, ma, da figlio di professore d’arte, capiamo che è un film che Stanley Tucci ha molto pensato e elaborato.
Ha ricostruito l’atelier dell’artista alla perfezione a Londra, ha composto un gran cast dominato da un Geoffrey Rush meraviglioso, ha una bellissima musica di Evan Lurie, che non sentivamo dai tempi di Jim Jarmusch e Roberto Benigni e qualcosa della massa vitale dei ritratti di Giacometti ha saputo farcela capire.
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