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Eammon Forde per “The Guardian”
Nel 2001, i 100 concerti top dell’anno generarono in tutto 350 milioni di dollari, nel 2015 i top 25 da soli hanno generato 360 milioni di dollari. Due i motivi: sempre più gente va agli show e il costo dei biglietti s’è impennato.
Prendiamo l’esempio degli U2: nel 2001 hanno guadagnato quasi sei milioni e mezzo di dollari con 4 live a Chicago, vendendo 78.275 biglietti tra i 45 e i 130 dollari. Nel 2015 hanno incassato quasi 19 milioni e mezzo di dollari con otto concerti, 149.942 spettatori che hanno comprato tagliandi fra i 30 e i 275 dollari. In pratica gli U2 hanno raddoppiato i concerti ma triplicato gli incassi.
Gli incassi non equivalgono ai profitti. I soldi finiscono nei loro conti in banca ma servono a sfamare tante bocche. Cos’è che paghiamo esattamente tramite il nostro biglietto? Il settore non ne parla volentieri, perciò i nostri addetti ai lavori hanno chiesto di restare anonimi. Le suddivisioni si fanno fra artista, venue, promoter, marketing e tasse. Devono essere tutti pagati, cambiano solo le percentuali di caso in caso.
Il 10% del nostro biglietto va per la prenotazione e per gli oneri amministrativi (sia che ce lo spediscano a casa sia che ci diano il privilegio di stamparlo). Le tasse variano, in USA sono il 5% a ticket, in Europa ‘la tassa culturale’, come la chiamano, può arrivare al 35%.
Una piccola percentuale del lordo va ai songwriter sotto forma di royalties e dipende dalla capacità della location. Secondo la ‘Ascap’, la SIAE americana, per i luoghi con capacità superiore a 25.000 persone, si va dallo 0.8% allo 0.1%. In Gran Bretagna si raggiunge il 3%.
Il restante 84% è diviso fra artista e promoter, ma le cose da pagare sono molte: l’affitto del posto, i macchinisti, lo staff, elettricisti, corrente, noleggio fari, impalcature e ponteggi, transenne, arredamento del backstage, carrelli e muletti, trasporti, asciugamani, operatori medici.
Tutto questo abbatte il lordo a circa il 50% o 70%, dipende dagli accordi. Non ci sono regole precise ma comunemente, da questo momento, il promoter prende il 15% e l’artista l’85%. Nel caso si tratti di uno show che vende subito e tanto, la percentuale del promoter può calare al 5%, ma con i biglietti venduti nelle arene a 150 dollari e più, non fatica a raggiungere cifre alte. Quando si stabilisce una cifra fissa, il promoter garantisce i soldi all’artista e si prende il resto. Quando dividono, si fa 80 e 20, la cifra si aggiusta se il promoter dà garanzia (e corre più rischi).
L’artista a sua volta deve far quadrare la sua minieconomia: roadies, tecnici del suono e delle luci, catering, tour manager, coristi, musicisti aggiunti, oltre ai trenta camion che trasportano tutto di data in data. Che ci sia il concerto o meno, stare on the road costa circa 750.000 dollari al giorno. L’artista normalmente paga il manager, circa il 15%-20%. Ancora prima di circolare, l’artista o la band devono fare l’allestimento, con prove luci e di palco.
Più lo show è spettacolare, più il biglietto costa. La gente preferirebbe pagare di meno e avere un concerto bello ma meno spettacolare? Chissà. Se elargisci molti soldi per un concerto, quelli troveranno il modo di spenderli, tra hotel di lusso, elicotteri, palchi esibizionistici, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Mai sottovalutare l’ego e la sua capacità di sperperare soldi.
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