beatrice venezi

"BEATROCE" VENEZI: "L'IMMIGRAZIONE? TROPPA RETORICA. QUANDO ARRIVO IN STAZIONE A MILANO, HO PAURA" - PARLA LA MUSICISTA CHE HA SFIDATO MUTI E CHE A 29 ANNI SI STA IMPONENDO ALLA GUIDA DI ORCHESTRE DI LIVELLO: "MA QUALE FRAC, METTO LA GONNA MA CHIAMATEMI DIRETTORE, DIRETTRICE FA UN PO' SIGNORINA ROTTERMEIER - IL POLITICAMENTE CORRETTO E IL 'ME TOO' NON AIUTANO LE DONNE. MI URTA DAVVERO LA..." - E SU SANREMO... - VIDEO

 

Antonello Piroso per “la Verità”

 

beatrice venezi

Beatrice Venezi, 29 anni, pianista e compositrice, ha debuttato sul podio sette anni fa, ha già all' attivo un libro, Allegro con fuoco (Utet editore), ma solo oggi firma il suo primo album: My journey. Puccini' s symphonic works con l' orchestra della Toscana, per Warner Music. Tra le poche donne al mondo a dirigere orchestre a livello internazionale (un carnet da globetrotter: tra gli altri, Giappone, Argentina, Bielorussia, Canada, Libano, Portogallo, prossimamente gli Usa), è direttore principale dell' orchestra Milano classica e della Nuova orchestra Scarlatti young di Napoli.

 

Di recente, monsignor Gianfranco Ravasi l' ha voluta nella Consulta femminile del pontificio Consiglio per la cultura. Lei vuole essere chiamata direttore.

«Direttrice fa un po' scuola d' infanzia, un po' signorina Rottermeier, e non è certo attraverso il politicamente corretto delle definizioni che si realizza una vera parità di genere».

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Direttore, ma - lei dice - non «dittatore».

«Ho incarichi di direzione stabili ma sono anche freelance, il che significa confrontarsi con, mi passi il termine, materiale umano variabile, orchestrali che si conoscono tra di loro, ma con cui io come direttore devo entrare in sintonia in solo due giorni di prove. È necessario che si crei un clima di complicità e fiducia con il direttore, che deve saper instaurare una relazione empatica e quindi non deve risultare una persona dai modi autoritari e dallo sguardo perennemente accigliato, per arrivare a far dare a ciascuno il meglio nell' esecuzione di una partitura, così come lui ritiene - perché questo sì è di sua esclusiva pertinenza - debba essere interpretata».

 

Dispotico e altezzoso: ha in mente un identikit preciso?

«Quella è l' immagine standard, cristallizzata. Uno dei tanti cliché. E poi no, guardi: una volta, per essermi permessa di dissentire da un grande direttore d' orchestra che aveva sentenziato: "Non si può dirigere Mozart prima dei 50 anni", mi sono ritrovata il titolo: "Venezi sfida..."».

 

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Chi?

«Niente nomi, non voglio alimentare polemiche che potrebbero sembrare pretestuose o presuntuose».

Il Franti che è in me si è messo alla caccia dell' articolo in questione: l' unico trovato in Rete, sulla base del labile indizio, è del 29 luglio 2016, La Stampa: «La mia sfida a Riccardo Muti».

 

Vuole essere appellata direttore, ma sul podio va in abito lungo.

«Perché non dovrei? Ci sono colleghe - ancora sempre troppo poche, rispetto ai direttori uomini - che vestono in frac. Nulla in contrario. Ma siccome attraverso l' immagine si veicolano messaggi molto potenti, se mi vestissi da uomo continuerei a legittimare la convinzione che quello sia un mestiere per uomini. Se abdico alla mia femminilità per essere considerata seriamente, porto solo acqua al mulino di quel pregiudizio. E comunque il mio stile non è certo "esibito" come quello di Yuja Wang (pianista in genere microgonnata, nda)».

 

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Questo album è un atto dovuto, essendo lei nata nella stessa città del grande compositore, Lucca, e quindi immagino cresciuta a pane e Puccini?

«Nessun atto dovuto. Puccini è l' ideale per avvicinarsi all' opera e alla musica classica: è moderno, è contemporaneo, lui stesso ha avuto una vita intensa, un tombeur che amava le donne e le auto veloci, un dandy capace di restituire attraverso lo spartito la gamma e il turbinio di sentimenti anche contrastanti. Nelle opere di Giuseppe Verdi, i protagonisti ci mettono 20 minuti per dirsi "Ti amo", mentre nella Butterfly manco te ne accorgi e lei è già incinta! Forse anche per questo a lungo alla Scala non lo misero in cartellone: troppo "pop"».

 

In un pianeta a trazione maschile, dai capelli brizzolati, lei quali pregiudizi ha dovuto affrontare: l' essere giovane, donna, o avvenente?

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«Soprattutto quest' ultima circostanza. Purtroppo siamo legati ad alcuni stereotipi, uno dei quali, ancora molto radicato, è quello per cui se tieni al tuo aspetto, curi la tua persona, hai un aspetto gradevole, vuol dire che sei di poco spessore, una donna davvero intelligente non perde tempo con il look».

 

O bella o intelligente.

«Appunto. Se posso rivolgere un invito alle donne di qualunque età, professione, status: non rinunciate mai alla vostra femminilità, è un valore aggiunto che fa la differenza. Mai imitare o scimmiottare gli uomini per essere accettate o cooptate. Poi naturalmente il rispetto te lo devi guadagnare con lo studio, il sacrificio, il dedicarsi completamente a un mestiere che ho l' enorme fortuna di veder coincidere con una passione coltivata fin da bambina».

 

Figlia d' arte?

«Per nulla. E non sono stata raccomandata, non ho mai avuto protettori altolocati, non sono dovuta diventare amante di qualche uomo potente».

 

Visto che ha toccato il tema, cosa pensa della campagna Me too? Ci sono stati presunti casi anche nel suo mondo, penso a Placido Domingo.

«Non ci può essere alcuna indulgenza per la violenza, ma non si può neppure generalizzare. Se una donna non lascia spazio a fraintendimenti, chiude subito la porta agli ammiccamenti, facendo capire di non essere "disponibile", non si crea neppure l' occasione. La denuncia delle molestie deve però essere tempestiva, perché se non ti sei ribellata alla pressioni indebite per raggiungere certi traguardi, non è che ti puoi svegliare d' incanto dopo dieci o vent' anni e gridare allo scandalo. Tra l' altro nell' intervallo hai consentito a quell' uomo di coltivare la sua illusione predatoria: poter continuare a fare i suoi comodi senza problemi».

 

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Lei quando ha avvertito il sacro fuoco per la classica?

«A 7 anni, era il momento delle Spice girl e dei Backstreet boys, ma io avevo cominciato a suonare pianoforte e sentivo che la classica era davvero musica immortale, giunta fino a noi attraverso l' oceano del tempo. Ho frequentato le scuole ordinarie e contemporaneamente il Conservatorio. Due giorni dopo la maturità ero già in Germania come maestro preparatore per un' esecuzione della Butterfly (come vede, sono sempre stata destinata a incontrare Puccini, fin dal luogo di nascita). Il direttore mi ha proposto di fare una prova, mi sono buttata, e alla fine mi ha detto: "Well, you can do it", lo puoi fare, e gli orchestrali mi hanno regalato la mia prima bacchetta. Tornata in Italia ho iniziato a studiare con Piero Bellugi, il maestro e il mentore cui devo tutto».

 

Quali sono le barriere che ancora devono essere abbattute nel suo mondo?

«Per esempio, la rigida divisione tra generi ancora imperante in Italia: se dirigessi al Festival di Sanremo non potrei più mettere piede in alcun teatro della Penisola. E poi tutto quello che rende ancora la classica un prodotto ritenuto elitario, riservato alle élite e da loro gestita. Vorrei popolarizzarla, senza scadere nel facile populismo: ma se il sapere è monopolio di pochi, il popolo senza cultura è più facilmente controllabile o manipolabile».

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Allora una domanda sull' attualità s' impone: come ci vedono all' estero?

«Sono confusi, ed è difficile spiegare loro meccaniche celesti che sono incomprensibili anche a noi: Tizio alleato di Caio contro Sempronio, si allea con Sempronio, ma poi Sempronio scarica Tizio e si allea lui con Caio. Aggiunga che le leggi, il carico fiscale, i tempi della burocrazia e della giustizia sono quelli che sono, e mi dica lei se un imprenditore straniero può essere invogliato a investire da noi. E invece cosa ci hanno raccontato?».

 

Dica lei, c' è solo l' imbarazzo della scelta.

«Il taglio non del costo del lavoro, ma del numero dei parlamentari, una goccia nel mare del bilancio dello Stato. Per forza che poi a qualcuno viene in mente di trasferirsi oltre frontiera, se anche questo poi non fosse un omaggio a quella stessa esterofilia per cui in Italia non esisterebbero direttori di museo all' altezza, e quindi li importiamo dall' estero. Certo la tentazione talvolta è forte: io vivo a Milano, mi sono attivata ad agosto per fare il rinnovo della carta d' identità, alla fine l' ho avuta a ottobre. Nelle ultime due settimane mi hanno rotto due volte il finestrino della macchina per rubare quello che non c' era, perché in auto non lascio nulla».

 

C' è un problema di sicurezza? Anche e soprattutto, come sostiene la destra, a causa di un' immigrazione non regolata?

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«Non ho difficoltà ad ammettere che quando mi sposto da sola e in treno, e arrivo di sera alla stazione Centrale di Milano, ho paura. Non voglio entrare in un dibattito complesso, però inviterei a uscire dalla retorica perché un conto sono i richiedenti asilo, in fuga da zone di guerra (la Germania in questo è stata bravissima: si è accaparrata i migliori medici, scienziati e ingegneri siriani), e un altro i migranti "economici". Sa cosa mi urta davvero? Il tono di certe esternazioni: "Anche noi italiani siano stati emigranti". Vero, ma noi siamo andati a contribuire alla crescita dei Paesi in cui arrivavamo, lavorando nelle miniere e morendoci, costruendo strade o senza orario alle catene di montaggio, senza che nessuno ci regalasse nulla, dopo averci trattenuto come bestie in quarantena».

 

Abbiamo contribuito pure all' esportazione della mafia, purtroppo.

«Giusto, ma proprio per non fare di tutta un' erba un fascio, bisognerebbe strutturare un' accoglienza non indiscriminata, in base a un' integrazione che sia realistica, consentendola a chi, a prezzo anche di sacrifici, se la merita sul serio. È come per la musica e la cultura: perché la loro promozione non sia un enunciato astratto, tutti devono avere le stesse opportunità di accesso, ma poi può andare avanti solo chi, con la preparazione, l' impegno, la fatica e le rinunce, ne risulta all' altezza».

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