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Marco Consoli per il Venerdì-la Repubblica
2001:odissea nello spazio kubrick
«Quando è uscito 2001: Odissea nello spazio avevo 14 anni. Ricordo che andai alla première con mio padre Stanley, mia madre e le mie sorelle.
Diverse persone uscirono dalla sala e molti non lo capirono». A raccontare è Katharina Kubrick, figlia del regista. La incontriamo al festival di Cannes in occasione del cinquantenario del film, che tornerà in sala il 4 e il 5 giugno.
Oggi è considerato un capolavoro indiscusso della settima arte ma all' epoca la critica lo maltrattò. «Una conquista dal punto di vista degli effetti speciali, 2001 non è interessante dal punto di vista drammatico» scriveva Variety, la bibbia del cinema hollywoodiano, mentre Pauline Kael, rispettatissima critica del New Yorker, rincarava la dose: «È un film straordinariamente privo di immaginazione. C' era una piccola sequenza all' inizio di Agente 007. Si vive solo due volte con un astronauta che fluttua nello spazio con uno stile aggraziato, un momento che ho trovato più divertente di tutta la visione di 2001».
«Eravamo in hotel il giorno dopo la proiezione» ricorda Katharina «e papà leggendo le recensioni si infuriò, preoccupato di quale sarebbe stato il destino del film. Lui non era solo un artista, ma anche un uomo d' affari e il successo commerciale voleva dire poter avere i soldi per girare il suo progetto successivo. Per fortuna in sala quella sera c' era anche un disc jockey che ne parlò alla radio, definendolo un' esperienza visiva straordinaria, e così fu soprattutto il pubblico dei giovani a decretarne il successo.
Tanto che molti critici furono costretti a correggere i propri giudizi iniziali e la Metro-Goldwyn-Mayer si convinse a cambiare la frase di lancio, da "un dramma epico d' esplorazione e avventura" a "il viaggio definitivo"». Il viaggio cui si riferiva la Mgm non era solo quello verso Giove dei protagonisti, gli astronauti Bowman e Poole, o quello metaforico nella storia dell' evoluzione umana, dalle scimmie alle astronavi, ma soprattutto quello psichedelico e criptico degli ultimi trenta minuti che molti giovani apprezzavano al punto di ritornare più e più volte a rivederlo.
Realizzato da Kubrick come un' esperienza soprattutto visiva, con soli 40 minuti di dialogo in 2 ore e 41 minuti totali, 2001 diventò la pellicola abbracciata dai seguaci della controcultura, che si facevano di canne e Lsd prima di entrare in sala.
Quello che invece rendeva indigesto il film agli spettatori più razionali era la presenza dell' inesplicabile monolite e il suo simbolismo, oltre all' allucinazione di Bowman, al punto che Kubrick in un' intervista rilasciata a Joseph Gelmis nel 1969, finì per spiegare come, nella più banale delle interpretazioni, la pietra fosse «un manufatto lasciato da esploratori extraterrestri con lo scopo di influenzare l' evoluzione umana nelle sue varie fasi» e la visione finale «un viaggio che porta Bowman ai confini della galassia, in cui raggiunge uno zoo umano che assume le fattezze di un ospedale tratte dalla sua immaginazione e dai suoi sogni».
«Mio padre detestava spiegare i propri film» racconta Katharina «perché pensava che una volta usciti dovessero appartenere all' interpretazione di chi li vedeva, però era tormentato dall' idea che 2001 non venisse compreso dalle persone. In ogni caso il film rappresentava l' attrazione che esercitavano su di lui l' esplorazione spaziale e le possibili forme di vita aliena: non solo era convinto, dal punto di vista probabilistico, che dovesse esserci qualcuno da qualche parte nell' universo, ma in qualche modo lo sperava, perché pensava che se fossimo stati l' unica forma di intelligenza il nostro sarebbe stato un destino molto solitario. Passava ore a discuterne con Arthur C. Clarke e con altri scienziati che venivano a trovarlo a casa per preparare il film».
Come nessuna pellicola di fantascienza prima di allora, 2001 descriveva anche in modo realistico l' avvenire tecnologico dell' uomo, rappresentato dalla trasformazione in astronave dell' osso lanciato in aria dallo scimpanzé, ma anche da Hal 9000, con la sua intelligenza artificiale di cui oggi si parla molto. «Quello che ci avrebbe riservato il futuro affascinava molto mio padre» spiega Katharina.
«Era anche un grande appassionato di tecnologia. Quando un nuovo gadget arrivava sul mercato se lo procurava: non soltanto cineprese e macchine fotografiche ma anche Pc. Si procurò anche il primo computer collegato alla rete. A casa passava ore a parlare con tecnici che venivano a spiegargli come funzionavano i nuovi gadget elettronici e leggeva minuziosamente ogni manuale».
Nonostante l' evoluzione dei computer però, Kubrick amava annotare le sue intuizioni a mano: «Aveva una collezione sconfinata di taccuini, divisi per colore a seconda dell' argomento trattato, che dovevano accoppiarsi ad altrettante penne colorate.
Gli interessava tutto quello che poteva rendere più semplice la sua e la nostra vita, ad esempio era sempre preoccupato di poter avere abbastanza cibo per i cani per il weekend. Era superefficiente».
Il racconto di un metodo talvolta portato al parossismo, unito al fatto che Kubrick si era trasferito a vivere e lavorare in una villa nella campagna inglese dell' Hertfordshire, non esattamente il centro del mondo, ha contribuito ad alimentare l' immagine che di lui è stata costruita nel corso degli anni: quella di un misantropo, preda delle proprie ossessioni, molto esigente, capace di leggendarie sfuriate quando qualcosa non era perfetto. «Si arrabbiava, certo» sbotta Katharina, «ma chi non lo avrebbe fatto nella sua posizione?
Non era solo il regista, ma anche il produttore del film, moltissime persone dipendevano da lui. Non era però una persona che alzava la voce per farsi rispettare, al massimo sul set per riprendere qualcuno usava il megafono. Odiavamo tutti, lui compreso, che venisse definito un maniaco del controllo, perché non corrispondeva al vero, e talvolta rimaneva ferito dall' assurdo ritratto che i media gli cucivano addosso, tanto che la sera quando mangiavamo tutti insieme lo pregavamo di difendersi pubblicamente. Come fece una volta portando in tribunale una rivista che lo aveva definito mentalmente instabile. La maggior parte delle volte ci diceva: sono una brava persona, che posso fare?».
La descrizione intima di Kubrick è quanto di più lontano ci sia dall' idea del regista folle, incapace di relazionarsi con gli altri, che col suo inarrivabile talento fa terra bruciata attorno a sé: «Era un bravo marito, un padre severo, con cui spesso discutevo perché non gli piacevano i miei fidanzati» ricorda la figlia. «Era una persona normale, giocava con i suoi cani e amava i gatti, che dormivano sempre sulla sua scrivania. Lavorava in casa perché odiava l' idea di fare il pendolare tutti i giorni per andare in ufficio. Questo non faceva di lui un solitario. E soprattutto ci coinvolgeva tutti: discuteva i progetti con mia madre, che da pittrice spesso realizzava i dipinti che finivano nei film, chiedeva a me che ero una brava fotografa di cercare le location, mio zio realizzava le musiche. Il cinema per lui è sempre stato un affare di famiglia. Il mito che è passato in tutti questi anni del genio solitario è solo una grande stronzata».
Dopo il suo esordio travagliato, 2001 ha lasciato un' impronta indelebile nella storia del cinema ed è anche grazie al film di Kubrick che sono arrivati altri registi capaci di portare, anche visivamente, la fantascienza là dove non era mai stata prima: non soltanto incoraggiando registi come George Lucas e Steven Spielberg nel realizzare pellicole considerate "difficili" per i gusti dell' epoca, come Star Wars e Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma arrivando anche a influenzare i filmaker delle generazioni successive, come Christopher Nolan col suo Interstellar o Denis Villeneuve con The Arrival. «Mio padre era un vero cinefilo» dice la figlia «e quando vedeva che qualche regista si era ispirato a lui prendeva carta e penna per scrivergli una lettera di ringraziamento. Come fece ad esempio con Spielberg, che diventò un suo grande amico».
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