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Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera”
Le tre di notte. «Squilla il telefono. Antonio Ricci. “Che fai, dormi?”. “No, alleno i pettorali”. “Domani vai a Milano, mettiti fuori da una paninoteca e osserva. Ci facciamo il tuo nuovo personaggio”. “Non ho una lira per il biglietto”. “Ti mando un vaglia?”. “No, mi arrangio”».
Rimediò i soldi?
«Me li prestò mia madre. Partii da Genova e mi appostai davanti al bar “Al Panino” di piazza Liberty. Gli adolescenti erano “lampadati”, giocavano a flipper, mangiavano hamburger, portavano piumini enormi, jeans e scarponcini bombati che parevano scarpe ortopediche. “Perfetto”, sentenziò Ricci. “Sei sfigato come loro, ti verrà bene”». E così, nel 1984, sotto il cappellino e i baffi di Enzo Braschi, nacque il Paninaro di Drive In.
Quello del “ troooppo giusto” che ingollava “paninazzi che mi smerigliano la gargarozza”, indefesso “cucador” di “belle sfitinzie” che in cambio rimediava “una compilation di schiaffazzi” o che “fuori di melone” impennava il Vespone cantando “Wild Boys” dei Duran Duran. Immortale protagonista del decennio stellare di Mazinga e di “Ritorno al Futuro”, del Commodore 64, del Game Boy e del Burghy di San Babila, santuario dell’intera categoria di cui sopra.
Il suo primo personaggio, suonatore di clarinetto, non era andato bene.
«Non piaceva a Berlusconi, che però fu buono. “Capisco che il signor Braschi deve pur campare, aiutiamolo, ma quella roba lì non fa ridere”. “Mi piace, lo teniamo”, gli rispose Ricci. E a me: “Travestiti, così non ti riconosce”. Facevo le parodie delle pubblicità. Non sfondavo, ero abbacchiato e squattrinato».
Prima di Ricci aveva conosciuto Beppe Grillo.
«Quando la Ansaldo mi mise in cassa integrazione — grazie al cielo — mi buttai sul cabaret. Con Beppe abbiamo fatto la gavetta insieme, locali e tv private. Quattromila lire a sera, ci pagavo pizza, birra e sigarette. Al Club Instabile di Genova io aprivo e lui chiudeva. Era fenomenale, parlava a raffica e strabuzzava gli occhi, la gente si sdraiava dalle risate. Una sera mi confidò: “Non ho preparato niente”. “Leggigli il menù della pizzeria”. E così fece, trasformandolo in una gag irresistibile».
La presentò a Ricci a caccia di talenti per Drive In.
«All’inizio volevo soltanto scrivere testi, gli autori durano di più. Ma dopo il provino Antonio mi disse: “Fai ridere, ti prendo come attore”. “E se non volessi farlo?”. “Allora te ne torni in Cig”. “Okay, quando comincio?”».
I paninari si offesero.
«Quelli scaltri capivano che li rendevo simpatici, altri no. Una sera mi si circondò un gruppo di brutti ceffi. Il capo avrà avuto vent’anni, alto e grosso. “Ora ti spacchiamo la faccia”. Risposi: “Io faccio ridere, però porto avanti il movimento”. “Sai che hai ragione? Vuoi che ti rubiamo un paio di scarpe?”. Ai tempi si usava prendere di mira un malcapitato, bloccarlo e sfilargli dai piedi le Timberland. “No dai, lascia stare che gli saranno costate 200 mila lire”».
(...)
Ultima apparizione in tv?
«Nel 2014 a Striscia per presentare l’autobiografia “Mi chiamo Bisonte che corre”.
Il suo nome indiano.
«Me lo assegnò il capo dei Blackfoot. Dal 1993 al 2003 ho partecipato alla Danza del Sole dei Lakota-Sioux, porto la Sacra Pipa da preghiera e ho ricevuto due penne d’aquila».
Una passione per il West.
«A 7 anni, guardando i western, facevo il tifo per gli indiani e piangevo se moriva Toro Seduto. D’estate correvo nei boschi di castagni della Valcamonica con arco e frecce. Il 17 aprile esce il mio nuovo libro “Io ricordo” (Verdechiaro Edizioni), aneddoti di quando vivevo nella riserva».
Per poco non ci rimise le penne con un bisonte.
«Ero andato in pellegrinaggio su una montagna sacra nel Sud Dakota, dove erano stati anche Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo, quattro giorni di digiuno e meditazione. Scendendo vidi una mandria di bisonti al pascolo. Per fotografarli mi avvicinai troppo. Il bisonte è miope ma ha un olfatto finissimo. Girò il vento e si accorsero di me. Uno mi caricò a testa bassa. Restai immobile, convinto di morire. Si fermò a tre metri da me, schizzò erba e terra con gli zoccoli e poi tornò indietro».
E lei ringraziò Manitù ?
«Come un cretino, continuai a scattare. Il bisonte mi caricò una seconda volta e di nuovo si fermò, scalciò la terra e fece dietro-front. Una ranger, occhiali a specchio e colt 45, mi disse: “Lei ha sfidato la sorte due volte”. “Mi chiamo Bisonte che corre e credo che quel bestione mi abbia riconosciuto come un parente”.
“Le credo, sa? Lavoro qui da 15 anni e ogni notte vedo i fantasmi degli indiani a cavallo correre verso la montagna”».
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