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"BUTTATE I COCKTAIL NELLE PIANTE": ECCO IL TRUCCO DI SHARON STONE PER DIFENDERSI DALLE MOLESTIE - "ANDAVO AI PARTY E NON BEVEVO. SE LA SITUAZIONE SI FACEVA POCO CHIARA SCOPPIAVO A RIDERE: NON C’È NIENTE CHE FACCIA AMMOSCIARE UN UOMO COME RIDERGLI IN FACCIA" – E POI PARLA DI OBAMA, TRUMP E DI UN UOMO CHE UNA SETTIMANA FA LE HA CHIESTO UN BACIO: ECCO COME E’ ANDATA A FINIRE…
Simona Siri per Vanity Fair
In una stanza al quattordicesimo piano di un grattacielo di Manhattan che affaccia su Battery Park ancora innevato, Sharon Stone sta facendo l’imitazione di Rita Hayworth. «La sua prima inquadratura in Gilda è ciò che definisce il personaggio, è l’entrata in scena di una diva». Mentre parla, sposta le gambe sulla sedia, si piega in avanti con il busto e… dà il colpo di testa indietro proprio sulla parola «diva», guardando dritto come se avesse la cinepresa puntata addosso. «Lo stesso è per Catherine Tramell in Basic Instinct: l’introduzione del mio personaggio avviene con un primo piano stretto».
Si sposta di nuovo sulla sedia, finge di avere una sigaretta tra le mani, emette una boccata di fumo immaginario. «Oggi le tecniche di ripresa sono diverse, per cui anche il lavoro di un attore è cambiato: si recita meno. È tutto più naturalistico, c’è l’alta definizione e se lavori con un regista come Steven hai la macchina appiccicata alla faccia per ore». Lo Steven in questione è Soderbergh, ideatore e regista di Mosaic, serie in sei puntate per Hbo, in Italia attualmente in onda su Sky Atlantic. Sharon interpreta Olivia Lake, una scrittrice di libri per bambini la cui misteriosa scomparsa dà l’avvio al più classico dei gialli. Ovviamente, ne è entusiasta: «Non è fantastico far parte di un progetto così innovativo?».
Una settimana dopo, il nostro incontro si sposta a Los Angeles, al Beverly Hills Hotel. Sharon arriva da sola, puntuale, maglietta a righe bianche e blu, pantaloni morbidi. In questi sette giorni sono successe due cose, anzi tre. La prima è l’avvicinarsi – il 10 marzo – del sessantesimo compleanno, cosa che non potrebbe interessarla di meno: «Farò la solita cena con amici, una cosa tranquilla». La seconda è che la sua Olivia Lake in Mosaic ha ricevuto critiche entusiaste dalla stampa americana. La terza è un’intervista al programma Cbs Sunday Morning, diventata virale. Il momento cruciale è quando il giornalista Lee Cowan le domanda se sia mai stata vittima di comportamenti molesti. La risposta di Sharon è una lunga, fragorosa, spontanea ed evidentemente ironica risata. «Ma secondo lei? Sono arrivata in questo ambiente 40 anni fa. Ho visto di tutto». È da questo «tutto» che riparte la nostra chiacchierata.
Come si è protetta dalle molestie la ragazza Sharon, quella arrivata a Hollywood dalla Pennsylvania senza protezione e senza amicizie?
«Buttando i cocktail nelle piante. Letteralmente. Andavo ai party e non bevevo, stavo attenta a non perdere il controllo per non finire in situazioni pericolose. Ero sempre all’erta. Fingevo di dover andare in bagno: appena la situazione si faceva poco chiara, chiedevo educatamente scusa e mi allontanavo».
Quindi recitava.
«Far sentire gli altri a proprio agio e farli divertire mantenendo al tempo stesso le distanze è un’arte. E io l’ho imparata molto presto. Mi sono protetta con il buon senso e giocando di anticipo. Non sono mai andata in una stanza d’albergo sola con un produttore, anche se poi certe schifezze avvenivano pure negli uffici».
E quando era troppo tardi per giocare d’anticipo?
«Scoppiavo a ridere: non c’è niente che faccia ammosciare un uomo come scoppiargli a ridere in faccia».
Il #MeToo sta complicando i rapporti con gli uomini?
«Il rischio c’è. Per esempio, è assurdo mettere insieme Weinstein e Al Franken (senatore democratico, ex comico, costretto a dimettersi per una foto in cui faceva finta di toccare il seno a una donna, ndr). Bisogna distinguere tra gradi diversi di molestia e tra comportamenti che con la molestia non hanno niente a che vedere perché sono innocui o scherzosi. Ho avuto registi che mi hanno pizzicato il sedere, ma non mi sono mai offesa perché eravamo in confidenza, erano amici. Inoltre penso che quando un uomo si scusa – e qualcuno c’è stato – bisogna ascoltarlo perché sono parole importanti. Non si può pensare che tutti siano mascalzoni: alcuni fanno errori, li riconoscono e chiedono perdono».
Catherine Deneuve è stata molto criticata per aver detto che agli uomini deve essere lasciato il diritto di importunare.
«Ha ragione. Non bisogna ammazzare il corteggiamento. Una settimana fa sono uscita con un uomo che alla fine della cena ha chiesto il permesso di baciarmi. E mi ha persino ringraziato quando gliel’ho accordato! Tutta questa formalità è la negazione del romanticismo».
Le donne più giovani non sembrano pensarla così.
«Le capisco. Anch’io a 20 anni non ne potevo più di quello che avevano passato mia mamma e soprattutto mia nonna, picchiata da mio nonno tutti i santi giorni. Dobbiamo tracciare una linea tra comportamenti non più accettabili e corteggiamento, solo che ancora non sappiamo dove. Non distinguere tra accuse pesanti e leggerezze però non fa bene a nessuno».
Come se ne esce?
«Gli uomini devono cominciare a parlare. Vogliamo sentire la loro voce. Bisogna che i due sessi comunichino di più».
Dentro al #MeToo è finito anche Woody Allen.
«Io sui suoi set (esordì al cinema con Stardust Memories, nel 1980, ndr) sono sempre stata trattata benissimo, con rispetto. Credo che non gli si perdoni la relazione con Soon-Yi. Eppure con questa donna ormai è sposato da 20 anni, hanno adottato due bambini. Un matrimonio così lungo qualcosa dice, no?».
E le accuse di molestie da parte della figlia adottiva Dylan Farrow?
«Sono accuse sue o vengono da una ex moglie arrabbiata?».
Hollywood è schierata tutta da una sola parte.
«Non voglio etichette e non voglio che mi si incaselli. Voglio stare dalla mia parte, da quella di chi pensa che uomini e donne debbano parlarsi. E che crescere figli maschi comporti delle responsabilità. È per questo che ho portato mio figlio Roan (17 anni, Sharon è madre adottiva anche di Quinn e Laird, ndr) ai Golden Globe: volevo vedesse da vicino un gruppo di donne con un intento comune. Le ha viste piangere e si è commosso. A casa mi ha detto che era orgoglioso di esserci stato».
Torniamo alla Sharon prima del grande successo.
«Ero così insicura. Ricordo la prima di Basic Instinct. Mi guardavo e pensavo: come mi hanno fatto bella. L’amica che era con me mi disse: “Sharon, guarda che tu sei così!”».
Eppure, aveva un passato da modella. Non si sentiva bella quando posava per i fotografi?
«Il mondo della moda è fatto apposta per farti sentire sbagliata. Trovano sempre qualcosa che non va: troppo alta, magra, bassa. E poi essere bella senza saperlo è come non esserlo. Solo dopo Basic Instinct ho capito non solo di essere bella, ma anche che la bellezza ti dà potere. Da lì in avanti non ho permesso più a nessuno di trattarmi come una bambola. Ecco, se c’è una cosa che vorrei insegnare alle ragazze più giovani è questa: usate bene il potere che vi dà la bellezza».
Come si passa dall’insicurezza a diventare il sex symbol degli anni ’90?
«A quel punto ero cresciuta, avevo l’età giusta per divertirmi ed ero single. Perché no? La fortuna è avere incontrato donne che mi hanno aiutata, mi hanno detto che cosa fare e che cosa evitare. Shirley MacLaine, Faye Dunaway, Angie Dickinson, Jeanne Moreau: da loro ho ricevuto i consigli migliori, mi sono state vicine come sorelle».
Che cos’altro ha imparato in 40 anni di carriera?
«Stai al tuo posto, e vedrai che il tuo momento arriva. Le celebrity pensano che tocchi sempre a loro stare sotto i riflettori, ma non è così. Io sono una che, quando serve, sa stare in disparte. Vuole un esempio? Il primo giuramento di Obama. Mi chiesero di salire sul palco, ma io ero andata lì da spettatrice, non c’entravo niente. Sono rimasta dietro le quinte e grazie a quella scelta ho avuto un incontro con Obama ancora più emozionante (le si velano gli occhi di lacrime, ndr)».
Due anni fa è tornata a scuola e si è laureata. Perché?
«Per fare qualcosa di davvero significativo per me stessa. E per un senso di completezza: finire ciò che si è iniziato è una forma di successo».
Era una brava studentessa da giovane?
«Al college sono arrivata presto, a 15 anni, ma non era adatto a me. Era una scuola mediocre, mentre con il mio Q.I. avrei dovuto frequentarne una per studenti molto dotati. È stata un’esperienza frustrante, ero spaventata e insicura».
Che effetto le fa sentire quando uno come Donald Trump si autodefinisce un genio?
«Trump è il riflesso di una parte della nostra società, è nostra responsabilità domandarci cosa abbiamo fatto per crearla. Il razzismo, la megalomania, la mancanza di compassione per i deboli sono frutto di un pessimo sistema educativo e del fatto che l’America non si prende più cura dei propri cittadini».
È vero che ha la costituzione degli Stati Uniti sempre a portata di mano?
«Ce l’ho scaricata sul cellulare (lo prende e me la fa vedere)».
Sta pensando a un futuro in politica?
«L’attività per AmfAR mi ha portato a contatto con politici, ambasciatori, reali. Ho dovuto studiare leggi, ho lavorato molto con chi governa, ma non sono interessata a una carriera politica».
Voterebbe Oprah presidente?
«È sicuramente più preparata di Trump o di quanto fosse George W. Bush».
È sempre così onesta con i giornalisti?
«E perché non dovrei? In questo momento io e lei siamo colleghi, lavoriamo entrambe allo stesso risultato».
Non tutti la pensano così.
«Io sì. Gli altri si fottano».
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