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DAGOREPORT – QUANTO DURERA' LA STRATEGIA DEL SILENZIO DI GIORGIA MELONI? SI PRESENTERÀ IN AULA PER…
Antonio Gnoli per “la Repubblica”
L' ultimo esemplare del grande B movie italiano vive a Ostia. Nella casa tappezzata dalle locandine dei suoi film, molti dei quali apprezzatissimi dal pubblico americano, Umberto Lenzi mi guida come a una prima di spettacolo. È sveglio, sorridente, vitale malgrado gli ottantacinque anni. Confessa che quello è il suo mondo, dal quale è assente la moglie, scomparsa un paio di mesi fa:
Olga Pehar, una slava bellissima con cui ha condiviso 52 anni di storia matrimoniale: «La conobbi sul set. A quel tempo i nostri film avevano due versioni: una per l' Italia, molto castigata per via dell' occhiuta presenza andreottiana; una disinibita e osé per l' estero. Accompagnavo quest' ultima con un grido liberatorio: "Giù le mutande!". Era un modo di dire. Ma Olga non capì, si offese e scappò via dal set. La inseguii per mesi. Ne persi le tracce».
Come la ritrovò?
«Accadde un anno dopo. Una sera ero al "Whisky a Go Go" e la vidi entrare con una comitiva di stranieri. Un' apparizione. Mi riconobbe. Le chiesi timidamente perché era fuggita. Rispose aggressivamente che ero un porco. Dissi che era un modo di dire. Mi scusai.
Alla fine facemmo pace. Parlammo, bevemmo e poi ballammo. Mentre la stringevo, alzai gli occhi e vidi appese, tutto intorno al soffitto, delle mutandine sexy. Guardandola le sussurrai: certamente non sono le tue! Si mise a ridere. Cominciò così la nostra lunga storia».
La sua invece ha inizio a Massa Marittima.
«È dove sono nato. Mio padre veniva da Follonica. Aprì una macelleria a Massa Marittima. Non pensavo di seguirne le tracce. Piuttosto vegetariano. Piuttosto avrei ballato in tutù sulle punte.
Nella vita di provincia non c' erano molte occasioni: c' era chi andava al mare e chi pigramente passava le giornate al bar. Io preferivo il cinema. Si presentò l' occasione di fondare - con Guido Aristarco e Callisto Cosulich - una specie di cineforum. Inaugurammo con Paisà. Rossellini ci prestò la sua copia in tedesco. Poi facemmo un' abboffata di sovietici. Pudovkin, Vertov, ovviamente Eisenstein. Aristarco, ortodosso lettore lukacsiano, ammirava rapito».
Non la facevo così dedita al cinema impegnato. Così lontano dal suo.
«Già allora ero segretamente attratto dal cinema americano. Quello tosto. Ma a chi dirlo? Il neorealismo era la Bibbia. Un giorno Carlo Cassola e Luciano Bianciardi mi chiesero se li aiutavo a gestire un cineclub che avevano aperto a Grosseto. Divenni amico di entrambi. A quell' epoca conobbi anche Marcello Morante, il fratello di Elsa».
Ha conosciuto anche la scrittrice?
«No, però ricordo di averla vista sulla spiaggia di Follonica, molto prima che sposasse Moravia. Ho in mente la sua figuretta aggraziata. Non bella, ma avvolta da un leggero fascino forastico. Tutto qui.
Con Marcello, che era avvocato, feci pratica nel suo studio. Mi laureai in legge. Ma la passione era tutta per il cinema. Intanto frequentavo Cassola che stava scrivendo Fausto e Anna, il romanzo sulla sua esperienza di partigiano. Lo vedevo tormentato. Dubbioso. Afflitto. Gli chiesi che c' è Carlo?».
E lui?
«Disse che alcuni episodi della Resistenza lo turbavano. Mi confessò di sentirsi responsabile della strage di Niccioleta dove i nazifascisti uccisero un' ottantina di minatori».
Responsabile di cosa?
«Cassola aveva militato nella XXIII Brigata Garibaldi. Qualche sera prima dell' eccidio guidò un gruppo di sabotatori per far saltare un ponte. Nel momento dell' esplosione passavano due camion di soldati tedeschi. Ne morirono 25.
La reazione fu terribile. Tutta la zona del grossetano venne rastrellata. Molti civili furono deportati in Germania, altri fucilati. Cassola provava il rimorso per quella storia e non c' era verso di convincerlo che non era responsabile».
Accennava a Bianciardi.
«Era un uomo inquieto, sempre ai margini delle grandi storie e tuttavia capace di decifrarle magnificamente. Nel 1953 partecipammo entrambi alla nascita del movimento di unità popolare nel quale confluirono le diverse anime dell' antifascismo, tranne ovviamente i comunisti.
C' erano Calamandrei, Valiani, Enriques Agnoletti, Roncaglia e Carlo Levi. Alle elezioni il gruppo prese pochi voti, ma sufficienti per impedire che si raggiungesse il quorum per la "legge truffa". Nel frattempo mi diplomai al centro sperimentale di cinematografia a Roma. Era il 1954. Bianciardi partì per Milano, chiamato da Giangiacomo Feltrinelli che voleva fondare un giornale ».
Non sapevo di questa iniziativa.
«È poco nota, anche perché alla fine invece del giornale fu creata la casa editrice. Bianciardi, spirito anarchico, durò quattro mesi. Fu licenziato perché irriverente e pigro. Divenne traduttore di Henry Miller e scrisse quel bellissimo libro che è La vita agra. Ci perdemmo di vista».
E lei restò a Roma?
«Per un po', barcamenandomi. Avevo letto un libro che mi aveva entusiasmato: Ragazzi di vita. L' autore era uno sconosciuto. Scrissi a Garzanti, l' editore del romanzo, chiedendo l' indirizzo dello scrittore. E andai a trovarlo. Viveva a Monteverde con la madre. Insegnava a Ciampino. Gli dissi che il libro era bellissimo e che mi aveva ispirato per la sceneggiatura che gli sottoposi. Il film l' avrei chiamato I ragazzi di Trastevere ».
E Pasolini, visto che è di lui che parliamo, come reagì?
«Era incuriosito che un giovane fosse così entusiasta del suo romanzo da volerne fare un film. Lesse la sceneggiatura e gli piacque».
Il film poi fu fatto?
«Sì, e anche molto lodato. Ma non risolse i miei problemi di allora. Non avevo soldi e tenevo parecchia fame. La sera mi aggiravo per via Veneto sperando in qualche offerta cinematografica.
Il massimo che ottenni fu qualche pranzo pagato da Alessandro Blasetti e una scrittura in un suo film: dieci pose in Amore e chiacchiere e un po' di aiuto alla regia. Troppo poco. Alla fine tornai a Massa Marittima. Rividi Morante e nel mentre stavo decidendo di tornare a lavorare nel suo studio mi arrivò una telefonata di un professore del Centro sperimentale ».
Cosa le diceva?
«Che un grande produttore di Hollywood cercava una location lungo la costa tirrenica per ambientarvi un nuovo film e voleva qualcuno che conoscesse quei posti. Insomma, lo condussi in giro, gli feci vedere Castiglioncello, il Castello dei Balbo, la pineta, la sabbia, le ville. Conobbi in seguito il regista: Richard Wilson, era stato il montatore e poi aiuto regista di Orson Welles. Girammo per tre settimane».
Lei che ruolo ebbe?
«Ero una specie di segretario tuttofare. Mi presi cura di Esther Williams. Nel film Raw Wind in Eden (in italiano Vento di Passione) ingaggiarono perfino Eduardo De Filippo. Guardava ogni tanto la Williams, scuotendo malinconicamente la testa. Fu un' esperienza molto utile. Mi feci anche rilasciare un attestato di aiuto regista. Hollywood mi aveva scelto».
A parte gli esordi lei ha fatto unicamente un cinema di genere. Perché?
«Perché l' altro cinema mi annoiava e perché sono dell' idea che la gente va a vedere un film per ridere o piangere e non per dormire. Ho imparato molto dai fratelli Misiani, una coppia di produttori con cui feci sei o sette film. Il primo fu con Lisa Gastoni nella parte di Messalina. Uno spettacolo, nuda nel latte finto, mentre faceva il bagno! Poi girai Caterina di Russia, doveva interpretarlo Anita Ekberg. Ma non poteva.
Presi allora Hildegard Knef. Aveva lavorato a Hollywood. Era reduce da un film scandalo: La peccatrice. Arrivò traballante dalla Germania, le piacevano gli amari. Era stata anche l' amante di Boris Vian. Era considerata, per la sua voce, la rivale di Marlene Dietrich. Poi girai un paio di film su Sandokan con Steve Reeves».
Era un attore diventato famoso grazie ai suoi muscoli.
«Era di una bellezza pazzesca. Ma sarebbe stato più facile far recitare un somaro. Steve fu il classico automa. Era sposato a una nobildonna polacca che gli faceva da agente. Aveva girato la serie degli "Ercoli" e si beccò per il mio film 150 mila dollari. Una cifra enorme per allora. Ma il primo Sandokan incassò 900 milioni di vecchie lire. Mica uno scherzo».
Come erano i rapporti con la produzione?
«Eccellenti, bastava guadagnare. Poi mi chiamò la Pea con cui feci un western, ma non era il mio genere preferito, realizzai anche un film di guerra Attentato ai tre grandi, che avevo girato dopo aver letto le memorie di Churchill. In quel periodo lavorai con John Huston, Jack Palance e George Peppard».
Forse il sodalizio migliore l' ebbe con Thomas Milian.
«Veniva dall' Actors Studio. Bravissimo. Un paraculo, che a volte - come certi motori truccati - andava fuori giri. Sospettoso con i registi. Ma anche creativo. Capace di inventarsi al momento delle battute perfette. Insieme girammo sei o sette film. Tutto cominciò con Milano odia, la polizia non può sparare.
E poi ci inventammo il personaggio "Er Monnezza". A dire il vero fu Dardano Sacchetti che, scrivendo una storia, aveva tirato fuori una specie di ladruncolo con quel nome. Nella parte del commissario c' era il bravissimo Claudio Cassinelli che poi morì tragicamente in un incidente di volo».
Il film ebbe successo.
«Molto, ma non avevo voglia di fare il seguito e la produzione affidò a Bruno Corbucci il nuovo film con Milian. Devo dire che nel Trucido e lo sbirro Thomas fu bravissimo a stemperare con la sua greve ironia la violenza dei "poliziotteschi"».
Vi avevano accusati di essere di destra, fascisti.
«Macché fascista. Io ero e sono rimasto anarchico e come tale ho esplorato il mondo del cinema. Tanto è vero che poi passai al giallo e all' horror».
Vedo sul muro della sua stanza il manifesto di "Orgasmo".
«I produttori italiani vollero chiamarlo così perché dicevano che il titolo vero, Paranoia, faceva pensare alla noia. Pensi un po' il livello. L' interprete femminile era Carol Baker. Aveva lavorato con Elia Kazan, con John Ford e nel Gigante con James Dean. Litigò con la Paramount perché voleva più soldi. La major la mandò a quel paese. E poi c' era Lou Castel. Odiava l' acqua, non si lavava. Era solo per la rivoluzione. Un' ossessione. Comunque Paranoia in America fu uno dei grandi successi italiani».
È vero che Quentin Tarantino lo giudica uno dei grandi film della storia del cinema?
«Guardi, un giorno mi chiama il figlio di Sylvester Stallone, Sage, che poi farà una brutta fine per droga, e mi dice che insieme a Bob Murawsky vogliono incontrarmi. Vengono a Roma e mi comunicano che avevano acquistato i diritti di Cannibal Ferox e che lo stanno restaurando. Bene dico io, soddisfatto.
Poi mi tirano fuori la locandina di Paranoia e dicono se la posso dedicare a un loro amico. Bene dico ancora io.
A chi? "Al mio amico Quentin Tarantino". Era il 1996. Poi ci siamo visti a Venezia. Abbiamo passeggiato per quattro giorni tra il Lido e la città. Un bel tipo, davvero ».
Chi sono i registi che ama?
«I miei maestri sono Raoul Walsh, Michael Curtiz, Samuel Fuller e naturalmente l' inarrivabile John Ford. Tra gli italiani ero amico di Carlo Lizzani e di Blasetti. Ho amato Rossellini e De Sica».
E Fellini?
« I vitelloni è un grandissimo film sulla provincia italiana. La dolce vita un capolavoro. Ma con Otto e 8 ½ mi sono fatto un paio di palle che non le dico».
E Antonioni?
«Chiamerei il 118. Quando uno inserisce la battuta: "Mi fanno male i capelli", penso con raccapriccio a cosa può spingere sta famosa incomunicabilità! Di Antonioni mi piacquero Le amiche e Il grido. Quasi tutti cominciano bene. Poi si guastano. Blow Up fu di una noia mortificante. Che ne sapeva dell' America, che neppure l' inglese parlava! Vogliamo confrontarlo col popolare Raffaello Matarazzo? Oggi lo riabilitano, ma allora negli anni Sessanta lo avrebbero mandato in galera».
Lei non gira più da tempo?
«Sono vent' anni che non faccio più cinema. Ostia d' inverno è una città fantasma. Dove vai? Perciò preferisco scrivere romanzi. Ne ho fatti sette l' ultimo appena uscito è Cuore criminale, sempre con il commissario Astolfi come protagonista. La storia è ambientata nel dopoguerra e si svolge negli stabilimenti di Cinecittà.
tomas milian nel film squadra antitruffa 199465
Vede, si torna sempre alla propria gioventù. Mi piacciono i ricordi. Mi piacciono le verità romanzate. Non ho mai avuto sovrastrutture mentali. Sono un animale quando giro e quando scrivo. Fiuto l' aria e dico: vai Umberto falli ridere e piangere».
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