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Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per il Corriere della Sera
«La verità è che a me fa male la tv», spiega Fabrizio Moro. Sa di apparire spesso ombroso, corrucciato. «È che davanti alle telecamere sono sempre un po’ in imbarazzo.
Ma sono molto diverso da quella immagine lì, e anche solo chi viene ai miei concerti lo sa». Sono stati tanti, negli ultimi mesi. È appena uscito il suo nuovo ep, «La mia Voce vol. 2».
«L’ho scritto nel 2020, durante la pandemia. Avevo tempo per riflettere».
Pare essersi concentrato parecchio sull’amore, stando alle canzoni.
«In quel periodo ho vissuto una solitudine pazzesca: non avevo una compagna, me ne stavo chiuso dentro casa e pensavo».
Ha scritto di relazioni non sane, tossiche.
«Un problema in cui mi sono perso diverse volte, per via di quella ricerca costante di un po’ di adrenalina. Nel nostro immaginario pensiamo di ambire alla pace, alla serenità, però poi, alla fine, mi sono accorto che nelle relazioni andavo sempre alla ricerca di sensazioni forti, quelle che ti danno i rapporti quando iniziano: è come se generassero sostanze che ti fanno sentire vivo e che, al tempo stesso, creano dipendenza».
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ghiaccio il film di fabrizio moro 2
Dove è cresciuto?
«Nella periferia di una periferia: Setteville nord, periferia di San Basilio. Mi ci sono trasferito a 14 anni: non c’era niente. Non c’erano strade asfaltate, non c’era un bar... c’erano solo 50 ville con solo il primo piano finito e sopra tutto da fare. In quel contesto, noi ragazzini ci siamo conosciuti e siamo cresciuti, attorno a un muretto del quartiere. Passavamo Natale insieme, le vacanze insieme... si era creata questa piccola comune. E nei miei ricordi di allora c’è sempre il sole».
Nell’ep c’è anche un brano dedicato a quelle persone, che si intitola proprio «Il sole».
ghiaccio il film di fabrizio moro
«Mi riaggancio ai momenti più belli che abbiamo vissuto assieme, in estate. Molti amici li ho persi. Alcuni morti per la droga, perché allora circolava ancora in maniera importante. Altri sono morti in incidenti stradali. Tra loro, il mio migliore amico: morto in moto, a 23 anni. Quando subisci la prima morte violenta smetti di essere un adolescente e cresci di colpo. Diventi uomo in un minuto, perché realizzi che le cose possono accadere e non dipende tutto da te, anche se da adolescente ti mangeresti il mondo».
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Ed è nato l’amore con quello strumento.
«Me la portavo ovunque, anche in vacanza. Non c’erano i telefoni, quindi per noi amici il sabato sera era chitarra, birra e risate: modificavamo i testi delle canzoni famose per prenderci in giro. Ricordo una mia versione di “Bar Mario” che faceva ridere tutti... Sono stato fortunato: ho amato molte persone che mi hanno amato».
E con la sua famiglia?
«Siamo uniti ma non posso dire di avere lo stesso legame. Ci vogliamo bene, certo. Ma non siamo empaticamente così affiatati. Mio padre fa il contadino: un calabrese che si è trasferito a Roma da piccolo, lavora nei campi da quando aveva 12 anni... non è un sognatore, ha mantenuto sempre i piedi per terra».
E quando gli ha detto che voleva fare il cantante?
«Mi diceva: tu sei pazzo. Non erano contemplati sogni del genere nelle nostre vite. Di base, il rapporto tra noi è rimasto così. Mio padre questo disco non l’ha ancora sentito... magari se lo va a comprare da solo, ma senza dirmi nulla. Di certo non è il padre che mi dà consigli».
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C’è un momento in cui ha realizzato tutta la strada che ha fatto, partendo da quel muretto e dalla chitarra con quattro corde?
«La prima volta che ho suonato in curva, all’Olimpico, nel 2018: è stata un’emozione molto forte. In quello stesso posto avevo assistito ad alcuni dei concerti più belli della mia esistenza: Vasco, Ligabue, Springsteen, gli U2. Trovarmi lì è stata un’emozione che mi ha invaso l’anima».
Ha conosciuto qualcuno di questi suoi miti?
«Aprivo i concerti di Vasco ma non l’ho mai incontrato perché entrava subito dopo di me: ci siamo scritti in qualche occasione, su Instagram. Abbracciarlo è un mio desiderio. Ho diretto un video di Ligabue: è una persona molto seria e la prima volta che l’ho incontrato ero quasi a disagio, non è il tipo che ride e scherza subito e io nemmeno. Sentivo una forte responsabilità. Ci ha aiutato una partita: giocava l’Italia, l’abbiamo vista assieme e ci siamo sciolti».
È anche regista. Farebbe mai l’attore?
«Mi hanno proposto diverse volte di recitare: mi sono arrivate proposte da tre registi molto importanti che ho rifiutato perché non me la sentivo. Ma mai dire mai. Uno di loro, un nome davvero grosso, mi ha chiamato per recitare nel remake di uno dei miei film preferiti. Non ho accettato pensando che un giorno me ne sarei pentito, perché poi so che mi divertirei. Ma credo anche che non si debba esagerare nel fare troppe cose: rischi di diventare un pagliaccio».
Le hanno mai detto che non avrebbe mai sfondato?
«La maggior parte delle persone che ho incontrato nella musica... discografici... per questo ho creato la mia etichetta indipendente. Mi sono sempre ispirato alle persone che hanno fatto qualcosa di importante nella vita: spesso hanno avuto storie difficili. Ma tutte hanno in comune una cosa: sono andate avanti e hanno resistito, anche a chi non credeva in loro».
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