DAGOREPORT - BENVENUTI AL “CAPODANNO DA TONY”! IL CASO EFFE HA FATTO DEFLAGRARE QUEL MANICOMIO DI…
Domenico Ciccone per www.operaclick.com
Cercare un’interpretazione visiva originale in un’opera vista e rivista come Il trovatore è certamente arduo, e lo è ancora di più se si sceglie di trasportare la vicenda in epoca fascista, scelta che non presupporrebbe chissà quale originalità essenzialmente per due motivi : il primo è che ormai il trasporto d’epoca sembra essere la regola più che l’eccezione di una regia lirica, il secondo è che anche l’epoca fascista ha fatto da sfondo a innumerevoli altre regie.
Nel caso della produzione che ha inaugurato la stagione 2018/2019 della Rete Lirica delle Marche, però, il periodo del ventennio è usato con grande consapevolezza storica dalla regista Valentina Carrasco per raccontare l’amore dei due giovani partigiani Manrico e Leonora contrastato dal potere costituito del capo del Minculpop Conte di Luna.
La scena si apre sui militanti fascisti impegnati a censurare il periodico partigiano "La Voce della Libertà" nella sede del ministero, periodico diretto da Manrico e realizzato in una stamperia mobile clandestina; Leonora, anch’essa partigiana, fa da staffetta di collegamento con il Conte per sapere in anticipo le mosse dei fascisti e permettere all’amato e ai suoi sodali di continuare a vivere e operare in clandestinità. Nulla è lasciato al caso nella narrazione, e tutto scorre con estrema naturalezza in grande accordo con la musica: da brividi quando, sotto il racconto di Azucena, scorrono sullo sfondo immagini d’epoca dei rastrellamenti degli ebrei, sempre più crude man mano che la musica incalza.
Segno di una sensibilità artistica della regista che travalica il semplice concetto di riambientazione del libretto per andare verso la direzione dello scavo nella memoria storica. Non mancano pennellate di cinema neorealista, dalla scena del convento che vede le suore distribuire pasti ai soldati del Conte appostati, travestiti da poveri mendicanti, all’apertura del quarto atto con i soldati che bruciano le copie del giornale clandestino sotto lo sguardo affranto di Leonora, che ha cambiato a vista il proprio abito alla fine dell’atto precedente nel silenzio generale. Un maggior tempo di prove forse avrebbe potuto evitare qualche impaccio dei cantanti nel gestire i concitati finali di primo e secondo atto, ma pochissimo toglie alla bontà di un allestimento di grande presa emotiva.
Parimenti di livello la parte musicale, con punte di eccellenza: Sebastiano Rolli concerta con grande attenzione alle dinamiche e ai colori dell’orchestra, portata a spegnersi in sussurri di suono per poi riaccendersi con baldanza ma senza fracasso (di grandissimo effetto, in questo senso, i rispettivi racconti di Ferrando e di Azucena). Apprezzabile soprattutto il senso di continuità che riesce a imprimere Rolli alla narrazione, che scorre fluida e compatta fra tinte notturne ed empiti guerreschi senza che si avverta il minimo stacco, grazie anche ad una Filarmonica Marchigiana in forma davvero notevole. Stupisce quindi, in un simile contesto stilistico, il vero e proprio buco creato da un Ah si ben mio sbrigativonei tempi e nelle dinamiche e una pira lanciata a velocità folle, abbastanza ben sostenuta dall’orchestra ma non altrettanto dal povero e incolpevole tenore.
Molto attesa al debutto in un ruolo importante nella sua terra d’origine, Marta Torbidoni non ha tradito le attese: la voce di lirico pieno, con timbro chiaro e luminoso, si sposa a una linea di canto sicurissima tanto negli elementi più belcantistici di agilità di forza, trilli e picchettati, quanto nell’omogeneità dei registri e in piani e pianissimi ricchi di suono (compreso il do della grande aria del quarto atto). Convincente anche nell’interpretazione di una figura palpitante ma allo stesso tempo volitiva, particolarmente nel quarto atto dove riesce anche a reggere con fiati lunghissimi le ampie arcate di Prima che d’altri vivere. Qualche leggero problema sulla dizione sembra emergere nei momenti di maggior stanchezza, ma nel quadro di una prestazione d’eccellenza è cosa si può facilmente perdonare.
Le cospicue doti naturali di Ivan Defabiani, dal timbro brunito al volume ragguardevole, contribuiscono a creare un Manrico irruento e appassionato, che pure non manca di ricercare inflessioni più raccolte nei passi maggiormente lirici, come Madre…non dormi. Inflessioni che tuttavia sembrano inserite un po’ a freddo nel quadro di una naturale propensione ad un canto più “sfogato”, che pure ha una sua quadra musicale generale. Peccato per la non perfetta riuscita dei due momenti topici (con buona responsabilità del direttore, come sopra scritto), dall’Ah si ben mio fuori tempo in alcuni punti alla Pira in affanno e con i do abbastanza tirati.
Dopo una lunga carriera all’insegna del belcanto, Simone Alberghini debutta in Italia in un ruolo che, accanto a Rigoletto, è fra quelli che più verdiani non si può. Debutto con vari motivi d’interesse, perché se la voce sembra non avere il colore e il peso vocale “tipici”, il fraseggio disegna invece un personaggio estremamente sfaccettato, questo si “tipico” (o almeno dovrebbe esserlo) del Conte di Luna.
Ecco quindi che l’esordio in scena di Tace la notte! avviene all’insegna di un afflato amoroso che si espande in Oh Leonora, tu desta sei e nelle frasi seguenti, e dalle frasi finali Ah volle me deludere e per costui morir non traspare rabbia ma un’inedita tristezza per l’amore perduto.
Allo stesso tempo però il pur solido registro acuto soffre di un colore troppo chiaro per esprimere la necessaria protervia del Conte in altri punti della partitura; resta insomma da chiedersi se in un teatro di più ampie proporzioni ci potrebbe essere lo stesso bilanciamento tra pregi e difetti, pensando quindi che questa presa di ruolo del bravo artista bolognese debba forse rimanere nell’ambito di un pur riuscito esperimento.
Silvia Beltrami è un’Azucena della quale colpisce anzitutto la voce salda e compatta, fermissima in acuto e senza sbracamenti di petto nei gravi, anch’essa dotata di una tecnica che le permette il rispetto assoluto dei segni espressivi verdiani in Stride la vampa, cosa rara a sentirsi. L’artista non è da meno, con l’accento che disegna un personaggio allucinato sì ma non una pazza esagitata, con un’esecuzione non meno che entusiasmante, per intensità espressiva, di Condotta ell’era in ceppi. Molto bella la voce di Carlo Malinverno, e seppure in leggero affanno nel racconto iniziale, il personaggio viene fuori con molta autorità grazie anche alla notevole presenza scenica.
Molto, molto bene tutte le parti di fianco: Susanna Wolff è una Ines di bellissimo timbro e quasi materna, al pari del Ruiz di Alexander Vorona, che fraseggia da vero artista l’intervento che apre il quarto atto. Ottimo anche Davide Filipponi nella frase del vecchio zingaro, quasi sempre affidata a cantanti in debito di ossigeno.
Il Coro conferma anche in questa occasione la bravura e la professionalità che ne hanno fatto una realtà non solo locale ma nazionale, stanti una notevole precisione e gestione delle dinamiche di suono.
Successo pieno alla fine della recita, con punte di entusiasmo per le interpreti femminili.
Prossimi appuntamenti il 20 ottobre a Fermo (con anteprima giovani il 18) e il 26 e 28 ottobre a Jesi (anteprima giovani il 24), nel quadro di una lodevole sinergia di coproduzione con la Fondazione Pergolesi Spontini.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 13 ottobre 2018.
valentina carrasco, roberto pisoni e sarah cosulich
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