DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Giampiero Mughini per Dagospia
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Qualche giorno fa mi sono ritrovato a cena con due dei miei "amici" storici, di quelli con cui da ventenne che ero in poi ho condiviso le cose che per noi contavano, con i quali ho usato il linguaggio che a quel tempo pareva a noi irrinunciabile, con i quali avevamo scelto i valori che dessero senso a una vita. Quante volte ciascuno di noi tre aveva pronunziato ad alta voce la dizione "Tutto è politica!", e quanto ci tenevamo a quell'espressione e a ciò che sottintendeva: ossia che tutto di una società dipendeva da quel che ne raccontavano o ne promettevano i partiti, eventualmente i loro giornali.
Il settimanale del Pci, quella "Rinascita" che Palmiro Togliatti aveva fondato e in cui la madre di Giuliano Ferrara aveva lavorato a lungo come segretaria di redazione, arrivò a suo tempo a vendere centomila copie a botta, più di quello che vende oggi la "Repubblica".
Tutto è politica dicevamo, e intendevamo che ogni aspetto della vita in comune, tanto i libri che leggevamo che gli amici che eleggevamo e fors'anche le donne da desiderare, dipendevano dalla politica dei partiti, quella che oggi io chiamo con sprezzo "politica partitante" e non saprei come altrimenti definirla. Tutto questo durava ancora vent'anni fa, ma era cominciato da subito dopo la fine della guerra. Tutto era politica, dunque.
La ragazza che avevo amato nei miei vent'anni e con la quale le cose a un certo punto erano bell'e concluse, venne un'ultima volta a casa mia per insultarmi e per farlo scelse la politica, ossia le parole e i valori della politica del momento.
E del resto l'ultima immagine che ho di lei è quel loro corteo del 1° maggio 1969 in cui andarono in giro per la città enunciando quanto amassero Mao e quanto giudicassero il Pci perduto per la gran causa. Saranno stati fra i trenta e i quaranta tra uomini e donne e andarono in giro a lungo per le vie della città insultando il sindacato revisionista. Finché il servizio d'ordine del sindacato non andò loro addosso. Al che loro se la diedero a gambe e di quel loro corteo non rimasero altro che le bandiera rosse stropicciate per terra.
Mezzo secolo dopo, a un certo punto della cena con i miei due amici da cui ero partito, chiesi loro se alle prossime elezioni italiane avrebbero votato ed eventualmente per chi avrebbero votato. Era una domanda retorica. La risposta stava nell'espressione delle loro facce e nel loro silenzio, e del resto nel fare quella domanda era esattamente questo che mi aspettavo e che valeva per loro due come per me.
Quel silenzio e quelle loro facce. Che alludevano al fatto che probabilmente nessuno di noi tre sarebbe andato a votare. Era molto semplice. Eravamo tutti e tre dei liberali apartitici, dei "centristi", a tutti e tre sarebbe piaciuto che Carlo Calenda e Matteo Rernzi (o magari Beppe Sala) avessero messo in piedi una lista o una sigla elettorale.
maurizio landini (3) ricevimento quirinale 2 giugno 2024
Andare a rincuorare chi si presentava con un due per cento di elettori a lui favorevoli, a nessuno di noi tre sembrava ne valesse la pena. Poi, beninteso, ognuno fa quello che vuole e come vuole. Per fortuna non è vero che tutto quello che ci sta attorno e ci condiziona è politica. Allo stato attuale delle cose, è vero esattamente il contrario. Che tutte le cose che amiamo stanno fuori dai partiti e dalle loro traversie, i bei libri, la bella musica, il bel cinema, gli oggetti di design più avvincenti, gli indumenti che amiamo indossare, gli amici con cui passare la serata. Che la politica dei partiti non conta più niente nelle vite che ci siamo scelti di vivere, non racconta più niente del Paese in cui viviamo, dei problemi con cui i vostri figli dovranno fare i conti.
Tanto per restare in tema leggi su un giornale un lungo confronto tra i due maggiori personaggi dei 5Stelle, del gruppo politico il più "nuovo" degli ultimi dieci anni della storia politica italiana, un confronto in cui l'avvocato Giuseppe Conte si autodefinisce "progressista" e Beppe Grillo invece "di sinistra", e che te ne resta? Niente. Che vuol dire essere "progressista"? Niente. Che vuol dire autodefinirsi "di sinistra" oggi? Pressoché nulla.
Oppure che può voler dire la "rivolta sociale" auspicata nientemeno che da Maurizio Landini, dal capo del maggiore sindacato italiano, il ruolo che un tempo appartenne a tipini quali Giuseppe di Vittorio e Luciano Lama? Per fortuna non vuol dire niente, e a meno di non voler dare un risalto positivo a chi scassa la vetrina di un negozio o arrovescia un'auto parcheggiata per strada o ancor peggio di questo. Senza dimenticare che su queste prelibate disquisizioni piomba quella che oggi vale più di una sentenza della Corte di Cassazione, e cioè il numero dei like espressi sui social. Basta che una qualsiasi scemenza abbia un numero adeguato di like e subito diventa qualcosa di cui tener conto. Dio mio.
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