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Giuseppe Videtti per la Repubblica
Accadde in Italia. Incontrò Dylan dietro il palco. Il bassista Tony Garnier sussurrò al menestrello, quella è Bettye LaVette. «Lui si avvicinò, mi prese il viso tra le mani, mi baciò, e senza proferire parola s' incamminò verso il palcoscenico». Quando è stato? «Non ricordo. Era Bob Dylan, mica Dio!».
Bettye LaVette ha la sua filosofia: «Alla mia età (72 anni) racconto le cose come stanno, senza romanzarle. Sono una mezza star che ha avuto un mezzo successo. Questo è un momento magico, un contratto con una major! Finalmente sono una vecchia pazza e felice».
Non è sempre stato così. La sua carriera altalenante è iniziata nel 1962, a quattordici anni ha avuto una figlia, a quindici il primo divorzio, poi molto sesso («una groupie di talento ma una pessima prostituta»), molto alcol, fiumi di cocaina (sniffava anche con Aretha Franklin e suo marito Ted White, del quale fu segretamente amante), molte canne con Marvin Gaye e un acido «memorabile» con George Clinton.
Riscoperta all' inizio del nuovo millennio dall' etichetta indipendente Anti, che ha pubblicato i suoi primi album dopo quasi quarant' anni da sfigata, nel 2009 è stata invitata dal presidente Obama, un suo fan, a cantare al Kennedy Center.
Aveva tutto, sex appeal, voce graffiante (incise It ain' t easy anni prima che David Bowie la ricantasse in Ziggy Stardust), presenza scenica pazzesca, eppure sia la Atlantic che la Motown, mitiche etichette soul, le fecero firmare contratti mai onorati e la lasciarono in bancarotta; tutto raccontato in un' autobiografia choc, A woman like me - pubblicata dalla Penguin nel 2012 e già in lista per diventare un film - che farebbe arrossire le protagoniste di Sex and the city.
Dylan la abbraccerebbe con molto più calore, e forse le parlerebbe anche a lungo dopo aver ascoltato Things have changed (Verve), l' album in uscita il 30 marzo in cui Bettye interpreta con la consueta grinta (complici Keith Richards e Trombone Shorty) dodici sue composizioni. «La cosa più difficile è stata scegliere il repertorio», spiega LaVette.
«Il mio povero marito (Kevin Kiley, antiquario e cantante con il quale vive in New Jersey, ndr) ha ascoltato un migliaio di canzoni e ne ha scelte circa settantacinque da sottopormi, volevamo evitare l' ennesima versione di Blowin' in the wind e Knocking on Heaven' s door ». Keith Richards suona la chitarra in Political world, una canzone che per i suoi contenuti sembra scritta oggi. «È una persona deliziosa, adoro lavorare con quelli della mia età, con i sopravvissuti. Bob, Keith e io siamo più o meno coetanei».
Che ricordi ha degli esordi? Era solo un' adolescente.
«Accadde per caso: qualcuno venne da me e mi disse, "Hey, hai una bella voce, vuoi diventare una star?". Io non sono una di quelle cresciute pensando, un giorno farò la cantante, come Diana Ross, una con una piccola voce e una grande ambizione. Se mi avessero detto, saresti perfetta come insegnante o infermiera, avrei preso un' altra strada».
In oltre cinquant' anni ha inciso solo dieci dischi, cosa non ha funzionato?
«Niente ha funzionato! Sfortuna, brutti incontri, cattive abitudini: spararono in testa al mio manager che non ero ancora maggiorenne; capitai alla Atlantic nel momento in cui Jerry Wexler e Ahmet Ertegun avevano litigato a morte e il mio album, già inciso, rimase impantanato; mi accusavano di non avere il background gospel di tutte le altre dive del soul; alcol e cocaina per alleviare la frustrazione (mai bucata, gli eroinomani mi fanno orrore); squattrinata al punto di prostituirmi e diventare ostaggio di un pappone che minacciò di buttarmi giù dal ventesimo piano.
Ma alla fine è sempre arrivato qualcuno a dirmi, ti va di fare un' altra canzone?».
A proposito, quanti Weinstein c' erano, o ci sono, nel music business?
«Le donne hanno sempre subito, e senza fiatare. Per quelle di colore la situazione era (è) ancora più difficile, in casa e sul lavoro, nessuno all' epoca avrebbe creduto a una nera che denunciava stupri o molestie.
Non è un mistero che dietro ogni grande black singer ci sia un padre padrone. Ne hanno fatto le spese Billie Holiday, Nina Simone, Etta James, Aretha Franklin, Tina Turner. Era una cosa scontata, senza un uomo alle spalle - vogliamo chiamarlo protettore? - non andavi da nessuna parte: il prezzo del successo. A me andò anche peggio, a diciassette anni, a New York, un bellimbusto mi stordì di belle parole per poi pretendere cento dollari al giorno dalla mia breve attività di prostituta».
Ebbe la fortuna di fare un tour come spalla di James Brown
«Gran figlio di puttana! Era inavvicinabile, anche se il mio camerino era accanto al suo. C' era sempre un gran viavai di coriste trattate come groupie; nessuna ha mai lavorato con lui senza andarci a letto. Non volle che cantassi Let me down easy alla fine del mio show, all' epoca il brano era in classifica e lui non voleva essere oscurato da nessuno».
Con Otis Redding andò meglio?
«Un provinciale del Sud, ma attraente. Quando mi chiese di sposarlo stavo con un altro, quando poi avrei voluto "conoscerlo meglio" mi disse che la sua ragazza aspettava un figlio.
Che errore non aver cantato Respect prima di Aretha. Da tagliarsi le vene».
Come ha trascorso i lunghi periodi in cui è rimasta lontana dal palcoscenico?
«Fortunatamente mia madre mi ha insegnato altro: viaggiare, cucinare, coltivare fiori, quelle cose che ti aiutano a stare calma, a non salire sul tetto e cominciare a sparare al primo che passa».
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