vittorio storaro

“A FARE QUESTO MESTIERE CI SONO ARRIVATO GRAZIE A UNA SERIE DI NO E DI BOCCIATURE. HO INIZIATO LAVANDO I PAVIMENTI” – VITTORIO STORARO, “AUTORE DELLA FOTOGRAFIA CINEMATOGRAFICA” (GUAI A CHIAMARLO DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA) SI RACCONTA – BERTOLUCCI, I TRE OSCAR, COPPOLA E "APOCALYPSE NOW”: “QUANDO ME LO PROPOSE, RISPOSI: 'E IO CHE C'ENTRO CON UN FILM DI GUERRA? AMO LE SFUMATURE DI LUCI E OMBRE, NON LE BOMBE'. POI LO CONVINSI A FINIRLO" – “HO PRETESO IL COPIONE ANCHE DA WOODY ALLEN. CI SONO ALCUNI SUOI FILM CHE ADORO, ALTRI CHE NON AVREI MAI ACCETTATO DI FARE" – LIBRO+VIDEO

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Filippo Maria Battaglia per “la Stampa” - Estratti

 

All'età in cui i bambini vivono la paura del buio, Vittorio Storaro aveva già scoperto il fascino della luce. «Avevo 5 anni quando una maestra mi diede un libretto con un'immagine policroma», racconta seduto nel soggiorno di casa a Marino, alle porte di Roma. 

Vittorio Storaro alla cinepresa accanto a Francis Ford Coppola sul set di Apocalypse Now.

«Da una parte c'era una donna con una veste blu, dall'altra un angioletto che irradiava luce. Era l'Annunciazione di Leonardo da Vinci. Ne rimasi abbagliato».

 

Quella folgorazione non l'ha più abbandonato: studiando e plasmando la luce, il cinematographer italiano – guai a chiamarlo direttore della fotografia – ha vinto tre Oscar, un Bafta, un Emmy e decine di altri riconoscimenti.

 

Ora, a 85 anni, è tornato a quell'immagine dell'infanzia per scrivere con Carlo A. Martigli Il romanzo del piccolo Messia (Solferino, pp. 384, euro 21). «Da sempre vado alla ricerca di dipinti per indagare la nascita e soprattutto la crescita di Gesù, che rappresenta l'armonia tra umanità e divinità», dice Storaro. «I vangeli dicono pochissimo di quegli anni ma il fatto che un bambino, crescendo, possa diventare il Messia mi ha sempre affascinato. Volevo raccontarne la storia conciliando fede e verità storica. Così ho chiesto aiuto a un grande scrittore come Carlo Martigli, che ha accettato con gioia». 

carlo martigli vittorio storaro libro cover

 

Il libro nasce dal ricordo di un'immagine e da centinaia di dipinti. Eppure lei non ha mai amato per sé la definizione di direttore della fotografia. 

«Il cinema è come un'orchestra. Ci sono molti artisti coautori, ma il direttore è uno solo: il regista. E poi la parola fotografia è un'espressione riferita a una singola immagine; io, semmai, sono un autore della fotografia cinematografica». 

 

L'esordio da spettatore? 

«Avrò avuto sei anni: papà – che faceva il proiezionista alla Lux Film – iniziò a portarmi in cabina. Guardavo le immagini in movimento: senza suono, sovrastate dal rumore del proiettore. Me ne innamorai».

 

Sembra una scena di Nuovo cinema Paradiso. 

«Sì, ero molto simile a quel bambino. Ma a fare questo mestiere arrivai in realtà grazie a una serie di no e di bocciature». 

 

La prima? 

vittorio storaro

«A 11 anni. L'esame di ammissione alle scuole medie fu un disastro: 3 in italiano, 2 in matematica, 4 in geografia. Mio padre mi iscrisse così alla scuola di fotografia Duca d'Aosta. Cinque anni di studio, poi papà chiese a Piero Portalupi, il direttore della fotografia della Lux Film, se potevo fargli da assistente». 

 

La sua risposta? 

«Un gentile no. "Prima lo mandi alla scuola del Centro sperimentale di cinematografia, poi – gli disse – lo prenderò come assistente". 

E visto che i soldi a casa erano pochi, intanto nel pomeriggio andai a lavorare». 

 

Che faceva? 

«Lavavo pavimenti e bacinelle in uno studio fotografico». 

 

E il Centro sperimentale? 

«Ci entrai a 18 anni. Ce ne sarebbero voluti 20, ma mi ammisero comunque agli esami. 

Entrai in Aula Magna, c'era una lunga schiera di esaminatori. Un tecnico mi chiese del "gamma": temevo che se mi fossi fermato sarebbe arrivata un'altra domanda a cui forse non avrei saputo rispondere. Così cominciai a parlare: mi piazzai primo su 150 candidati. E ottenni la borsa di studio». 

 

Il primo lavoro? 

«A 21 anni, operatore di macchina nel film Il mantenuto di Ugo Tognazzi, dopo le esperienze sui set come secondo e terzo aiuto non pagato. Fu il direttore della fotografia Marco Scarpelli a dirmi: "A regazzì, méttite in macchina che ne sai molto di più di tutti gli operatori che ho conosciuto" ». 

 

il premio oscar vittorio storaro foto di bacco

Nel '63, l'incontro con Bernardo Bertolucci: trent'anni di film insieme, culminati con l'Oscar per L'ultimo imperatore. 

«Senza di lui non avrei fatto questa carriera: Francis Ford Coppola mi cercò perché si era innamorato del film Il Conformista e poi, dopo aver visto Novecento, mi chiamò Warren Beatty». 

 

Tre registi, tre Oscar. Come nacque la collaborazione con Coppola? 

«Quando, a fine anni '70, venne il suo coproduttore a propormi Apocalypse Now, risposi: "E io che c'entro con un film di guerra? Amo le sfumature di luci e ombre, non le bombe". Per convincermi chiamò Francis, che iniziò a dirigermi al telefono: "Credimi Vittorio – disse – la guerra non c'entra, voglio raccontare il senso della sopraffazione di una cultura su un'altra". Compresi che era un concetto universale, e che mi apparteneva». 

 

Il monologo nell'oscurità di Marlon Brando è uno dei più iconici della storia del cinema. 

«Marlon temeva di non essere credibile come personaggio, visto che nel film appariva soltanto una volta, in silhouette.  Dopo tre giorni di discussioni tra lui e Coppola, trovai Francis sdraiato su una torretta alta quattro metri, mentre pioveva a dirotto. "Non ce la faccio più – mi disse – credo che non completeremo il film"». 

storaro bertolucci

 

Si perse d'animo anche lei? 

«No. Con l'aiuto di Martin Sheen feci una prova da presentare a Francis. Fu sua moglie Eleanor a convincerlo a vederla. Proposi dei tagli strettissimi di luce con cui illuminare solo degli stralci del volto di Marlon, in una sorta di lenta ricostruzione di un mosaico. Vide la prova e si convinse. Fece tutto lui: un genio». 

 

Gli ultimi cinque film li ha fatti tutti con Woody Allen. 

«Quando mi propose il primo, Café Society, chiesi all'agente la sceneggiatura. "Ma Vittorio – mi disse – se ti chiama Woody Allen non chiedi il copione! ". E io: "Glielo chiedo eccome. Ci sono alcuni suoi film che adoro, altri che non avrei mai accettato di fare". Tutto quello che facciamo professionalmente è ciò che siamo». 

 

Si occupa di luce da più di mezzo secolo: il prossimo progetto? 

«Girare il film da Il romanzo del piccolo Messia.

 

storaro bertolucci

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