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1. L'INFLUENZA DI LAURIE ANDERSON E LA "NORMALITA'" DI LOU REED
Guido Harari per "La Stampa"
A volte ti innamori, non della musica o del mito, ma della persona, del suo cuore pulsante, del ticchettio della sua intelligenza. Mi sono innamorato di Lou Reed nei primi Anni 80 (nello stesso periodo in cui mi ero innamorato di Laurie Anderson, che poi ne sarebbe diventata compagna d'arte e di vita), quando la Rca mi chiamò per realizzare la copertina del suo disco Live In Italy.
Lou capì al volo che non mi interessava la mitologia dei Velvet e della Factory warholiana, ma il suo incedere spedito, da pioniere, verso una creatività che, vent'anni dopo, l'avrebbe visto liberarsi di quegli stereotipi che lo volevano l'ultimo maledetto del rock. Ne rideva e ci giocava. Come Fabrizio De André, amava provocare: «Se la gente sapesse quanto sono normale, non comprerebbe più i miei dischi».
Nel 2002, durante l'unica tournée insieme a Laurie, lo trovai libero della vecchia zavorra, pronto a liquidare con disprezzo chiunque lo ributtasse indietro. Non aveva più tempo né pazienza: grazie all'influenza zen di Laurie, aveva capito che si può fare musica percorrendo sentieri «altri», oppure no, che si può anche tacere e dare fiato a nuove passioni, come la fotografia.
Di questa comune «malattia» abbiamo parlato per ore. Nel 2007 con Luigi Pedrazzi portai le sue foto di New York in Italia, alla Galleria Arteutopia di Milano, con un allestimento che lo lasciò stupito e un po' incredulo. Sapevo di godere della sua fiducia, ma per pudore in più di un'occasione ho evitato di esibire la macchina fotografico.
Un giorno, mi chiese dove l'avessi messa. Gli risposi che avevo preferito lasciarla a casa per non guastare la serata. Mi fissò, regalandomi il sorriso più dolce, pieno di ammirazione e gratitudine. à il ricordo più bello che di lui (e di noi) mi porto dentro, insieme alla foto in cui tiene in braccio mio figlio Albert di sette mesi, e al ritratto, molto intimo, che gli feci insieme a Laurie. Il mio pensiero ora va a lei.
2. DA WARHOL AL PUNK, COSÃ CANCELLO I CONFINI
Claudio Gorlier per "La Stampa"
Ricorderemo sicuramente Lou Reed per la sua creatività e la sua ansia di sperimentazione. Ma io credo che lo ricorderemo anche per il rapporto indissolubile tra l'inventore - consentitemi il termine che può sembrare logoro - e il personaggio. Il fenomeno, badate, non è insolito nella cultura, direi nella società americana dell'ultimo mezzo secolo, ma con lui raggiunge un vertice forse senza confronti.
Intendiamoci - e lo ricordo bene da testimone - la simbiosi è quasi inesorabile tra dimensione esistenziale e, appunto, creatività che caratterizza per qualche decennio, negli Stati Uniti, il fenomeno dell'avanguardia e soprattutto della cultura popolare. Ricordiamo prevedibilmente il fenomeno della beat generation, in letteratura, nella musica, del comportamento, del rifiuto al rispetto delle regole, all'esplorazione di un pensiero quasi iniziatico.
Ma Reed sicuramente merita un discorso a parte, e una memoria a parte. Intanto, la sua matrice ebraica di newyorchese di Brooklyn lascia il segno, non meno di quella di una parte decisiva della cultura americana del secondo Novecento. Ma Reed possiede, in comune con quasi tutti i protagonisti beat (sola eccezione, Ferlinghetti) la scelta di praticare, a somiglianza dei personaggi e delle situazioni, una scelta trasgressiva di persona, saltando i confini tradizionali.
Il fatto che nel 1956, lui nato nel '42, si deve sottoporre all'elettrochoc per arginare le tendenze omosessuali che rischiano di soffocarlo, lo testimonia. Al tempo stesso, Reed adolescente già prova un interesse non occasionale per la cultura. Insomma, è un giovane intellettuale che si laurea alla Syracuse University con una figura chiave della scena letteraria come Delmore Schwartz, che diventerà il suo primo, decisivo mentore.
Ecco allora due elementi risolutivi della sua personalità : l'inquieto negatore della morale borghese, del conformismo generalizzato e quasi obbligato, testimonianza di una insofferenza profonda (non di una rivoluzione, perché in America non esistono rivoluzionari nel senso europeo della parola), ma al tempo stesso la negazione dell'empirico, dell'improvvisato, del gratuito.
Il Reed chitarrista e il Reed autore dei testi delle sue canzoni eseguite con voce non accattivante sostanziano un capitolo basilare della cultura americana del nostro tempo. Piacciono, e Reed si colloca ai vertici, ai giovani, ma anche qui non per motivi umorali, ad onta della apparenze. I giovani provano insofferenza per i comportamenti tradizionali , per le imposizioni sia culturali sia comportamentali.
Certo: i titoli di Lou Reed sono ancora ben presenti a dimostrarlo. Perché intitolare una canzone The Black Angels, gli angeli neri? Si tratta di una indicazione blasfema? Al contrario: non privilegiate l'aggettivo, e invece riflettete sulla presenza quotidiana degli angeli, naturalmente ribelli. Il lascito ebraico si fonde con quello puritano, e allora ascolteremo dei Death Songs, dei canti della morte, mentre affiorerà un'altra parola travolgente, Ecstasy, l'estasi. Sono tentato di privilegiare proprio questa parola quando penso e ricordo Lou Reed: il punto di arrivo, la conquista autentica, è l'estasi, e i giovani che ascoltano e cantano con lui quello cercano, e magari in modo effimero trovano. Non necessariamente con la droga.
Sono gli anni della guerra in Vietnam, del trionfo predicato dai consumi, del profitto. C'è l'eco di un'Europa lontana e vicina: ecco allora Berlin. Ma un'altra svolta, oltre alla musica dei Velvet Underground (già , il sottosuolo) porta il nome di Reed: l'incontro tra parola, musica e visualità . Nasce così il rapporto con la pittura di Warhol; come dire? il punk rock si può non soltanto ascoltare, si può, si deve anche vedere. Pensate alla copertina di Warhol per un album di Reed: una banana fallica. Reed ha vittoriosamente cancellato i confini. ResterÃ
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