TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA ANDATE A…
Intervista a Francesco Merlo di Giuliano Guida Bardi per "Il Centro" -Estratti
Per tredici anni inviato del Corriere della Sera a Parigi. Poi, dal 2003, firma pesantissima di Repubblica. C’è chi lo chiama “l’Indignato speciale”, per quel tratto rigorista e un po’ velenoso della sua penna feroce.
Per altri rimarrà sempre “il Maestro di Parigi”, il bon vivant che sa quale champagne consigliare a un gentiluomo per le diverse occasioni della giornata e che riconosce i filati di cachemire. Il lettore raffinato e l’intellettuale ironico. Francesco Merlo è una fattispecie a formazione progressiva e inoltrarsi nel suo ginepraio di aneddoti, letture, riflessioni, rese dei conti e ghigliottine, riserva sorprese e richiede molta attenzione.
Quando hai deciso di voler fare il giornalista?
Io non volevo fare il giornalista. Io volevo fare l’inviato del Corriere della Sera. Sono nato in un giornale; mio padre era il direttore di una tipografia e io lì mi hanno insegnato a far tutto quello che serve in un quotidiano, sin da piccolo. Così come ho imparato a leggere la realtà al contrario, come ti insegnava il bancone.
roberto d agostino foto di porcarelli 5
(...)
E perché proprio al Corriere?
Mio padre era convinto che esistessero solo tre autorità in Italia: Il Papa, Il Procuratore Generale e il Direttore del Corriere della Sera. Uno dei mii fratelli ha fatto il magistrato, io l’inviato del Corriere. Certamente non avrei mai lasciato via Solferino se mio padre fosse stato ancora vivo. Lo avrebbe preso per un tradimento.
Perché passasti a Repubblica?
Perché il Corriere teneva una linea politica ambigua. Via Solferino è sempre stata filogovernativa, ma bisogna farlo con chiarezza. I lettori sono molto attenti e vanno sempre rispettati.
Paolo Mieli ha detto che il giornalismo italiano e quello europeo sono sempre stati fiancheggiatori della politica, non come gli anglosassoni che si mantengono estranei alla contesa politica. la qualità dell’informazione ne risente?
No. Al contrario, credo che se ne giovi. Essere di parte non vuol dire essere servile e si può fare un giornalismo onesto, raccontando ciò che si vede, ma con i propri occhi. Come stella cometa si ha l’oggettività (che peraltro non esiste) del fatto, ma non si può mica fare finta di non avere un pensiero al riguardo. La nuda cronaca viene rivestita della soggettività di chi la racconta. Il famoso giornalismo equidistante, o equivicino come si disse del brunone nazionale, è il peggiore, perché maschera, occulta, nasconde. Bisogna dichiarare la propria opinione in modo schietto.
(...) non esiste un fatto che non sia orientato. Se una persona si mangia le unghie è un fatto e lo si può raccontare in tanti modi: ci puoi vedere un gesto che segnala una passione oppure una volgarità. Ciò che non si può fare è tradire il patto di fiducia che si instaura coi lettori. Ricordi l’epigrafe che Leonardo Sciascia scelse per A futura memoria (Se la memoria ha un futuro)? È una frase di George Bernanos: “Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli". Ecco, i lettori non si ingannano.
(…)
Negli anni in cui prevaleva l’andare a vedere, ho assistito al fiorire di un giornalismo di chi era andato a guardare ma non aveva saputo vedere. Cominciava la stagione di una prosa scarna, penso al Panorama di Lamberto Sechi, fatta solo di soggetto, verbo e predicato.
Fammi un esempio.
Ecco: “Quel giorno il segretario della DC si svegliò con un grande mal di testa.” Ma chi te lo ha detto? Oppure: “Gli strinse la mano. Non sapeva cosa sarebbe successo l’indomani”. Cazzate di questo genere. Al Corriere arrivò un giornalista che sarebbe diventato famoso e …
Chi era?
Non te lo dico. Ma ti dico che fu assegnato alla pagina del tempo. E cominciò a scrivere cose di questo tipo: “Piove. Le scarpe dei milanesi fanno ciak ciak.” Insomma, una specie di sottoletteratura d’accatto, fatta di soggetto-verbo-predicato-punto. In America andava di moda John Dos Passos, la sua scrittura smunta. Forse in Italia lo volevano imitare, ma per me quelli non erano né andati a vedere né sapevano stare seduti. Io sto con Sciascia, per una versione mediana. Bisogna andare a vedere ma bisogna aver saputo essere stati seduti, prima. Certo, ora, come mi ha detto Gianmarco Chiocci, ci sono gli inviati in smart working…
(…)
E allora perché sei così cattivo quando scrivi?
Un pochino di cattiveria è necessaria. Una modica quantità, però, altrimenti diventa una cosa brutta. Bisogna essere sinceri e la realtà è spesso cattiva. Il giorno in cui il Parlamento votò contro la richiesta di autorizzazione a procedere per Bettino Craxi io scrissi per il Corriere un pezzo e lo intitolai Assoluzione e dissoluzione. È una cattiveria, certo. E ammetto che sono sempre stato un forte antipatizzante socialista. Ma la verità è che avevo colto i segni di quella dissoluzione.
Quando intervistai Craxi in quei giorni drammatici, era così teso che i suoi (pochi) capelli tinti scolorivano sul colletto bianco della camicia. Lo vidi e lo scrissi. Era una cattiveria? Forse, ma rendeva un’idea di quello che sarebbe accaduto dopo. Vidi il suo autista Nicola, un uomo che voleva sinceramente bene a Craxi, piangere, nascosto in un angolo. Lo scrissi.
Era una cattiveria? Forse anche quella, ma era la storia crudele, non il riferirla. La sera delle famose monetine andai al Raphaël. Io so, perché sono andato a vedere, che non fu il popolo a oltraggiare il gigante caduto.
Erano -e potrei fartene i nomi- i portaborse di molti parlamentari di estrema sinistra e di estrema destra. Ma dovevo raccontare quel momento che in sé conteneva il futuro. Era come la quindicesima delle quattrodici miniature storiche di Stefan Zweig, i Momenti Fatali. Fu quello il momento in cui Craxi uscì dalla politica e dal Paese.
giorgio napolitano con enrico berlinguer al mare all isola d elba el 1978
Eri antisocialista a prescindere?
Ero da poco arrivato al Corriere e mi mandarono a fare un articolo su un convegno che Craxi faceva al centro congressi Stelline. ”Onorevole, sono Francesco Merlo del Corriere”, gli dissi, presentandomi. “Ma vah?”, mi rispose, e quattro scemi accanto a lui si misero a ridere. Io non me lo sono mai dimenticato.
Permaloso?
No, ma mi offese senza una ragione. Pensai che fossero arroganti. Molti anni dopo, a Beirut, dopo la giornata di lavori, Craxi mi chiese di parlarmi, mi portò in un salottino dell’hotel che ci ospitava e mi chiese perché io ce l’avessi con lui. Gli spiegai che non ce l’avevo affatto, ma gli ricordai quell’episodio di molti anni prima e gli dissi che solo descrivevo l’arroganza che avevo trovato in loro. Solo dopo il lancio delle monetine ho cominciato a guardarli con maggiore accondiscendenza.
Perché?
Perché sono intimamente italiano. Il fascino degli sconfitti è quello che ci piace di più. La sconfitta è la porta stretta attraverso al quale passare per arrivare a Dio. Vieni battuto e gli italiani ti amano. Vedrai, succederà anche con Sinner. Ora comincia a stare sul gozzo a tutti, ma appena gli daranno una bella sconfitta formativa che gli faccia stringere i denti, mordere la lingua e sanguinare, tutti saranno innamorati di lui.
Cossiga diceva che si può sbagliare tutto, ma non il modo in cui uscire di scena.
Aveva ragione. Se Berlinguer non fosse morto al momento più giusto, sarebbe diventato Rizzo, probabilmente. James Dean non avrebbe conosciuto il mito. Se campi troppo può succedere quello che è capitato a Federica Pellegrini, che chiamavano ‘la divina’ e ora fa Ballando. O a Beppe Grillo, che esce di scena con un parricidio e senza la paghetta. Lo stesso succederà a Conte, fra poco. Anche se Grillo merita un posto nel Pantheon dei grandi sconfitti, Conte no.
Chi sono i grandi sconfitti?
una giornata particolare aldo cazzullo 3
Martinazzoli, Mario Segni, Marco Pannella, Achille Occhetto. Grandi figure che hanno cambiato il Paese, pur perdendo la loro battaglia personale. Ma l’importante, come ti diceva Cossiga, è la luce che illumina l’uscita dal proscenio. È quella che dà il significato a tutta una vita.
Sei europeista?
Mi sento europeo, senza dubbio, ma l’ista non mi piace. Mi piace l’Europa che cresce, ma anche l’Europa può diventare cattiva. Potrebbe trasformarsi in un’Europa-caserma, non inclusiva, non generosa, non aperta. È per questo che penso che servano grandi giornalisti che raccontino le cose per come sono, perché è sempre possibile confondersi coi titoli.
Ma pare che grandi giornalisti non ce ne siano più, a sentirti.
MATTEO ZUPPI E FRANCESCO MERLO ALLA REPUBBLICA DELLE IDEE
No, ce ne sono e moltissimi. Se io vedo un pezzo di Paolo Valentino lo leggo senza neppure badare al titolo, perché so che farina usa per impastare: ha un rapporto e una cura delle sue fonti che pochi possono vantare. Ma sono in tanti bravi.
I nomi
Di alcuni mi dispiace non leggere più la firma sul mio giornale, come Sebastiano Messina. Ma bravissime Rosalba Castelletti, Tonia Mastrobuoni, l’inarrivabile Roberta Iannuzzi di Radio Radicale. E poi Tommaso Labate, Antonello Guerrera, Guia Soncini, Anäis Ginori, Marco Imarisio…
Tutti rigorosamente a sinistra?
No, anche a destra ci sono penne che mi piacciono, e molto. Penso a Giordano Bruno Guerri, a Pietrangelo Buttafuoco (l’unico da cui Scalfari voleva farsi intervistare) e poi a Marcello Veneziani o all’ironia maliziosa di Carmelo Caruso.
E direttori che ti piacciono?
vincenzo de luca francesco merlo - la repubblica delle idee
Ci sono grandi direttori, da Carlo Verdelli a Ezio Mauro a Ferruccio De Bortoli, da Giuliano Ferrara a Paolo Mieli, che è il vero erede di Eugenio Scalfari, perché ha esportato lo scalfarismo. Non possiamo dirlo perché mi accuserebbero di piaggeria, ma se potessi citerei anche il direttore di questo giornale, Luca Telese, che è talentuoso. Poi per me è molto difficile ammetterlo, ma sono innamorato di Mario Orfeo.
Si dice che Luciano Fontana stia per lasciare la direzione del corriere. chi suggeriresti a Cairo?
Beh, il più bravo, Aldo Cazzullo. Anche se pare che abbia un grande difetto, anche se uno solo.
Quale?
Una specie di psoriasi: è sempre il primo nella classifica dei libri.
Sei noto per le ghigliottine e i giudizi icastici. facciamo un gioco, dico dei nomi e mi dai una definizione.
Avanti.
Giorgia Meloni?
Beh, direi che sta crescendo a livello internazionale. Suggerisco di promuoverla da Regina a Imperatrice di Coattonia.
Bruno Vespa
Cito Massimo Bordin: Stampa e Regime.
Lilli Gruber
Da 8e1/2 a 8menomeno. Lilli è la migliore: grande professionista, perbene e garbata, però da quando ha affidato una parte rilevante del suo programma ad alcuni giornalisti, ricorrenti nelle argomentazioni oltre che nella presenza, non sento più il dovere di guardarla ogni giorno.
Dagospia?
Il vero genio del giornalismo italiano, quello che ha capito tutto.
Papa Francesco
Mi pare Aldo Fabrizi, il prete buono, quello che condanna la prostituta Anna Magnani, ma la abbraccia con dolcezza. C’è un Papa per la dottrina e uno per la carne e il sangue.
Donald Trump
Un monello, perché gli piace fare ciò che nessuno si aspetterebbe; ha una sua genialità e per questo ha vinto contro la prevedibilità della Harris. Un mattoide.
Putin è un altro mattoide?
No, quello è un tiranno
Netanyahu un altro tiranno?
No. Non sono la stessa cosa. Senza difenderlo, ma non merita di essere giudicato un tiranno come Putin. Non è assimilabile
Fedez?
Fedez chi?
Che progetto ti attende?
Voglio liberare Sciascia e il suo capolavoro Todo Modo, che quest’anno compie 50 anni, dalla prigione in cui si trova. Il libro, bellissimo, quello in cui Sciascia rappresenta il palazzo rinchiuso in un albergo di Zafferana, è del 1974. Il film che Petri fece nel 1976 non ha una relazione se non eventuale con il libro. La figura di Moro nel romanzo non è percepibile, nel film è centrale.
francesco merlo eugenio scalfari foto di bacco (2)
La DC, con rara miopia, denunciò il film per vilipendio dello Stato e lo fece bruciare. Ciascuno capisce che qualsiasi opera bruciata, al di là del suo valore, è un’opera vincente. Nel 1978 Moro venne ucciso e si realizzò la profezia di Todo Modo, ma è venuto il momento di restituire quel capolavoro alla letteratura e sottrarlo allo scontro politico, a un’interpretazione obbligata dai fatti che sono successi dopo. Il prossimo 8 dicembre ne parleremo con Marco Follini, Fabrizio Gifuni e Francesco Bei, alla Nuvola a Roma.
francesco merlo antonio gnoli foto di bacco
E sullo stesso tema mi confronterò a Racalmuto, con un intellettuale temibile come Adriano Sofri, qualche giorno dopo. Le cose che contengono il futuro, come Todo Modo, vanno liberate e affidate alla storia. Vanno emancipate da questo processo infinito e angosciante che facciamo da anni.
Quale sarebbe?
L’ossessione del processo al Palazzo. C’è in Todo Modo. C’è nell’opera di Pier Paolo Pasolini, che morirà solo un anno dopo l’uscita del libro, nel 1975. Si tramuta nel processo del Tribunale del Popolo che condannerà a morte Aldo Moro. Poi il processo alla Tappa, in Rai, che si trasfigura nel Processo del lunedì, il primo Festival dell’insulto libero, e trasmigra nel processo alla casta dentro il Tribunale di Milano, prima, e chez Grillo, dopo.
francesco merlo saluta paolo mieli foto di bacco
TI senti più italiano, francese, dove hai vissuto così a lungo, o più siciliano, dove sei nato?
Contesto la sicilitudine. Un’invenzione che ha danneggiato la Sicilia più della mafia. Sono sicuro che se oggi potessimo fare mezz’ora di chiacchierata con Sciascia, lui stesso rinnegherebbe questa storia che è una trovata di Pirandello, un alibi attraverso il quale passa la sconfitta.
La Sicilia non è la metafora di nulla: ma perché dovrebbe essere paradigma la Sicilia e non l’Abruzzo che ci ospita? La Francia è bella, è la versione riuscita dell’Italia. In Francia se devi fare la carta d’identità, c’è una procedura codificata. Anche da noi, certo, anche perché siamo modellati sulla base dell’organizzazione napoleonica. Però in Italia c’è il folletto che scassa gli ingranaggi, l’amico, il cugino che ti fa saltare la fila. In Italia c’è il “ci penso io”.
Ricorderai il caso di Maurice Papon, il burocrate francese, collaborazionista nel governo di Vichy. Gli dissero che doveva raccogliere il maggior numero di ebrei e, siccome erano gli ordini, ne assicurò 1600 in due anni ai campi di concentramento. In Italia sarebbe -è- successo altro. Non perché gli italiani non siano stati fascisti, figuriamoci, noi che abbiamo avuto la vergogna delle leggi razziali.
Ma se Papon fosse stato italiano, avrebbe nascosto qualche ebreo. Non per virtù, ma perché c’era qualche parente, un vicino di casa, il mal di testa o “oggi non è giornata!”. Non so cosa tatui nell’animo di un popolo certe caratteristiche. Non credo che i francesi siano molli perché mangiano formaggio o gli italiani ciccioni, anche mentalmente, perché si strafogano di pasta. Ma so che esiste uno spirito del luogo che ci fa diversi. E il nostro è questa tendenza Coccolino, come l’ammorbidente, che sfascia i sistemi, le organizzazioni, le procedure.
francesco merlo eugenio scalfari antonio gnoli foto di bacco (2)
E quindi più italiano?
Sì, e sai perché? Perché alla fine, quando esci dalla scena, qui, per tutti c’è un solo destino: la pernacchia.
francesco merlo saluta paolo mieli foto di baccofrancesco merlo eugenio scalfari antonio gnoli foto di bacco (1)francesco merlo foto di bacco (2)francesco merlo foto di bacco (2)FRANCESCO MERLO
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